lunedì 16 aprile 2012

La narratrice di fiabe

I seguaci di Dolcino rimasero sul Monte Rubello un anno intero. Trascorsero così una primavera, un’estate, un autunno, ma nei miei ricordi mi sembra di rivivere un unico, lunghissimo, gelido inverno.
Per settimane non seppi più nulla di Teodoro. Lo tenevano prigioniero? Lo avevano ferito, torturato, o ancor peggio? Di giorno non riuscivo a pensare ad altro, la notte mi portava solo un sonno inquieto e sogni dolorosi.
Poi una sera, in segreto, tornò in paese e bussò piano alla mia finestra. In tono concitato mi raccontò come le parole del Frate gli avessero mostrato il cammino che da tempo cercava, che entrambi avevamo cercato: la comunione fraterna dove regna l’amore, dove tutti sono ugualmente liberi di accogliere la Parola di Dio e ugualmente ricchi non in beni materiali, ma nello spirito. Condividere il pane, le gioie, le fatiche, vivere del proprio lavoro senza la schiavitù delle Decime, lottare per la libertà, questa la regola di Dolcino ed ora anche la sua. Seguendo quella regola avremmo dovuto celebrare la nostra unione e crescere i nostri figli!
Provai orrore e incredulità: come poteva parlare d’amore riferendosi ai nostri nemici? Eppure conosceva bene le sofferenze che ci avevano causato! In quel momento l’uomo con il quale pensavo di trascorrere la mia vita mi apparve come un nemico anch'egli e il gelo mi penetrò nelle ossa, nel cuore. Gli dissi di tornare dove si trovava così bene, noi non avevamo nulla da offrirgli, a noi erano rimaste solo fame e lacrime. Però non parlai con nessuno del suo tradimento.
Non ci furono altre razzie: Teodoro aveva forse l'autorità di impedirle o l’avvicinarsi dei Crociati aveva reso i Dolciniani più prudenti? Ma la paura era ormai una compagna inseparabile. La montagna che ci aveva sempre protetto dalle correnti più gelide e dalle tempeste improvvise, generosa nel donarci i suoi frutti, era diventata una presenza minacciosa, un oscuro pericolo sempre in agguato. 
Mio padre morì quell'inverno. Se ne andò quietamente, nel sonno: lasciò quel mondo che non riconosceva più in silenzio, senza una parola di odio o di rabbia. Lo seppellimmo in un limpido mattino di gennaio: tutto il villaggio volle accompagnarlo fino al piccolo cimitero, ciascuno pregando, piangendo non solo la morte di un amico, ma anche la propria sorte, i propri lutti, le privazioni, l’incertezza del domani. Se con sincerità interrogavo me stessa, per chi versavo tante lacrime? per mio padre? per Teodoro? per la mia solitudine?
Come pecore di un gregge che si stringono le une alle altre quando sentono la vicinanza del lupo, così noi, incapaci di separarci, ci radunammo tutti quella sera in una stalla, riscaldati dalla vicinanza degli animali e consolati dalla presenza degli altri. A poco a poco calò un silenzio tetro che mi parve insopportabile, del resto quali parole potevano confortare la nostra angoscia? I bambini, che fino a quel momento erano rimasti zitti, cominciarono, ora l'uno ora l'altro, a piangere: era un pianto sommesso, rassegnato.
Si alzò allora una donna che non avevo mai visto e iniziò a narrare:
“Molti molti anni fa, in un tempo così lontano che nessuno più lo ricorda, dove ora vi è la piana di Stavello, vi era un lago lucente. Nelle sue acque limpide si specchiava il cielo azzurro e sulle rive crescevano fiori ed erbe profumate. Lo racchiudeva un bosco di pioppi bianchi dove una brezza leggera danzava sempre fra i rami più alti. Una fata lo custodiva e proteggeva i pesci che vi nuotavano e gli scoiattoli, le lepri, le marmotte che lì intorno avevano le loro tane. Viveva in una grotta e nelle giornate di primavera, quando ad uno ad uno sbocciavano i fiori, o nelle notti di plenilunio, quando un lungo nastro argentato attraversava il lago, cantava tutta la sua gioia. Era un canto lieve, sottovoce, a tratti pareva confondersi con lo stormire delle foglie o con il cinguettio degli uccelli, ma chiunque lo udisse riviveva i momenti più dolci della propria vita e provava una grande serenità.
Nessun essere umano l'aveva mai vista, finché un giorno un cacciatore giunse nel bosco vicino al lago: inseguiva da ore un cervo che continuava a sfuggirgli; sfinito e deluso, era sul punto di rinunciare, quando sentì il canto della fata. Di colpo sparì la sua stanchezza: dimenticato il cervo, la sua ambizione lo portava verso una preda molto più preziosa. Catturare una fata, costringerla al proprio servizio… ne aveva sentite tante lui di storie! Di certo gli avrebbe procurato, onori, ricchezze, tutto ciò che poteva desiderare..
Senza fare alcun rumore, nascondendosi dietro ogni cespuglio, si diresse al luogo da cui proveniva il canto .
La fata sedeva ignara sulla riva del lago, cantando e giocando con i cuccioli di una volpe. La sua veste era azzurra come l’acqua limpida e i lunghi capelli erano d’oro come i raggi del sole. D’un tratto gli uccelli tacquero e la fata del lago si guardò attorno per capire che cosa li avesse spaventati. Scorse il cacciatore che si stava avvicinando con passo furtivo. Con un grido si gettò nelle acque del lago, tramutandosi in una lucente serpe dalle scaglie dorate. 
Tale fu la rabbia dell’uomo nel vedersela sfuggire all'ultimo istante che, imbracciato l’arco, scoccò una freccia e uccise la serpe d’oro.
Il lago si tinse di rosso vermiglio, erbe e fiori appassirono, gli animali fuggirono spaventati.
A poco a poco, anno dopo anno, le acque senza vita si prosciugarono, lasciando dietro di sé la distesa di terra sterile e sassi che oggi vediamo.
Le fate però non muoiono mai del tutto, qualcosa di loro rimane, aleggia nell'aria. Così talvolta, in una tiepida giornata primaverile, o in una notte di luna piena, può ancora capitare di sentire quel canto, quella magia capace di restituirci  pace e serenità.”

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