mercoledì 25 aprile 2012

L'irresistibile apocalisse di Rodolfo Wilcock

Capita, quando non ci sono più libri nuovi da leggere, né acquistati né prestati, di rovistare negli scaffali alla ricerca di qualche rilettura che solletichi la fantasia. Capita anche, quando la fortuna arride, di fare autentiche scoperte o riscoperte. Così avendo deciso - in sintonia con l'umor tetro di queste giornate piovosamente uggiose - di rileggere La nube purpurea di M. P. Shiel, romanzo antesignano di tutta la letteratura e la cinematografia apocalittica, in cui è descritta la scomparsa pressoché totale e totalmente meritata del genere umano, sono inciampata nella prefazione di Rodolfo Wilcock. Ridere e far ridere del "più immenso cimitero mai raccontato, più totale perfino del Diluvio Universale", poteva riuscire solo a un talento comico e surreale come il suo.

...Che La nube purpurea, pubblicata nel 1901, sia un capolavoro, continuamente più riuscito e trascendente di un qualsiasi romanzo di Emile Zola - per nominare a caso un grande famoso sull'orlo del secolo - sembra non solo accertabile in sede di lettura, ma anche dimostrabile in sede critica. Se si paragonano gli argomenti profferti, nel romanzo di Zola troveremo probabilmente una famiglia torbida, un padre ubriaco, una figlia prostituta, la differita constatazione che i poveri sono poveri, che gli avari sono avari e che i parigini abitano a Parigi: se a un tratto apparissero tra i personaggi un egizio, o semplicemente un pesce volante, ho l'impressione che il romanzo barcollerebbe, a dimostrare la fragilità della sua struttura.
Nel romanzo di Shiel vengono proposte invece, tra molte altre cose, e senza barcollare:
  1. la fine del mondo e relativa morte dell'umanità (con la singolare eccezione della moglie del Sultano di Turchia);
  2. la scoperta del Polo Nord, che è un lago pieno di occhi con nel centro un'iscrizione che nessuno mai leggerà;
  3. l'incendio e distruzione con il tritolo di Londra, Parigi, Bordeaux, Bombay, Pechino, Nagasaki, San Francisco e Costantinopoli;
  4. la scomparsa per affondamento dell'intera Italia meridionale (con la singolare eccezione dell'isola di Stromboli e di un frammento della provincia di Enna)
  5. la Seconda Consumazione del Peccato Originale nella cabina di una nave al largo di Portsmouth;
  6. la lotta ventennale tra i Geni del Bene e del Male che si contendono gli ovvi vantaggi di questa ripetizione della Caduta primigenia...

In una pagina qualunque, il lettore troverà la stazione di Euston Road piacevolmente piena di una poltiglia internazionale di cadaveri, qua e là schizzata sulle colonne di sostegno; un tempio interamente costruito d'oro, d'argento, d'ambra, di giaietto e pietre preziose, circondato da un lago di vino rosso; l'unica donna sulla terra, carponi, nuda, ventenne, vista da dietro... Ma il libro ha molte pagine e non sembra possibile, né conveniente elencarne tutte le sorprese: si voleva soltanto segnalare che i normali romanzi della fine Ottocento racchiudevano in genere eventi più comuni, e racchiudevano meno eventi.
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Dipinti di Tom Porta: Progetto Nube Purpurea

lunedì 23 aprile 2012

Paesaggio - di Massimo Bontempelli

In un'età lunare la campagna deserta a perdita d'occhio ha germinato
una boscaglia nana fitta di luci d'acciaio senza rami né foglie
grigi filari intricati viticci di filo contorto - vi sbatte le ali morendo
qualche palla sfinita - s'affloscia
sopra i ciuffi molli ove tra sasso e sasso
vegliano disperatamente le violette
pallide senza profumo con un rancore muto contro uomini e dei.
Bisbigliano al vento su verso gli arbusti di ferro i grovigli strambi
che fioriscono a mille a mille le spine. Verrà un'estate di rose?
Chiedi il futuro domani al cerchio lontano 
delle montagne violastre che leticano di fumi ed echi tra loro.
S'aprono sperdendosi i fumi vaniscono - sul turchino profondo
un dracken osceno dondola governa il cielo e la terra.

Fotografia di Mariaelisabetta: Miracolo a Milano (sessant'anni dopo)

lunedì 16 aprile 2012

La narratrice di fiabe

I seguaci di Dolcino rimasero sul Monte Rubello un anno intero. Trascorsero così una primavera, un’estate, un autunno, ma nei miei ricordi mi sembra di rivivere un unico, lunghissimo, gelido inverno.
Per settimane non seppi più nulla di Teodoro. Lo tenevano prigioniero? Lo avevano ferito, torturato, o ancor peggio? Di giorno non riuscivo a pensare ad altro, la notte mi portava solo un sonno inquieto e sogni dolorosi.
Poi una sera, in segreto, tornò in paese e bussò piano alla mia finestra. In tono concitato mi raccontò come le parole del Frate gli avessero mostrato il cammino che da tempo cercava, che entrambi avevamo cercato: la comunione fraterna dove regna l’amore, dove tutti sono ugualmente liberi di accogliere la Parola di Dio e ugualmente ricchi non in beni materiali, ma nello spirito. Condividere il pane, le gioie, le fatiche, vivere del proprio lavoro senza la schiavitù delle Decime, lottare per la libertà, questa la regola di Dolcino ed ora anche la sua. Seguendo quella regola avremmo dovuto celebrare la nostra unione e crescere i nostri figli!
Provai orrore e incredulità: come poteva parlare d’amore riferendosi ai nostri nemici? Eppure conosceva bene le sofferenze che ci avevano causato! In quel momento l’uomo con il quale pensavo di trascorrere la mia vita mi apparve come un nemico anch'egli e il gelo mi penetrò nelle ossa, nel cuore. Gli dissi di tornare dove si trovava così bene, noi non avevamo nulla da offrirgli, a noi erano rimaste solo fame e lacrime. Però non parlai con nessuno del suo tradimento.
Non ci furono altre razzie: Teodoro aveva forse l'autorità di impedirle o l’avvicinarsi dei Crociati aveva reso i Dolciniani più prudenti? Ma la paura era ormai una compagna inseparabile. La montagna che ci aveva sempre protetto dalle correnti più gelide e dalle tempeste improvvise, generosa nel donarci i suoi frutti, era diventata una presenza minacciosa, un oscuro pericolo sempre in agguato. 
Mio padre morì quell'inverno. Se ne andò quietamente, nel sonno: lasciò quel mondo che non riconosceva più in silenzio, senza una parola di odio o di rabbia. Lo seppellimmo in un limpido mattino di gennaio: tutto il villaggio volle accompagnarlo fino al piccolo cimitero, ciascuno pregando, piangendo non solo la morte di un amico, ma anche la propria sorte, i propri lutti, le privazioni, l’incertezza del domani. Se con sincerità interrogavo me stessa, per chi versavo tante lacrime? per mio padre? per Teodoro? per la mia solitudine?

sabato 14 aprile 2012

Il "metodo" Dickens - di Stefan Zweig

 Fred Barnard (1846-1896): Mr. Pickwick Picnics (1870)
Dickens non ha contorni vaghi, non lascia margine alle possibilità interpretative della visione, ma obbliga alla precisione. La sua potenza descrittiva non lascia campo libero alla fantasia del lettore, che egli costringe violentemente (per questo è divenuto il poeta ideale di una nazione priva di fantasia). Ponete venti disegnatori davanti ai suoi libri e chiedete loro i ritratti di Copperfield e Pickwick: i disegni saranno simili l'uno all'altro, rappresenteranno con somiglianza inspiegabile il grasso signore dal panciotto bianco e dagli occhi gentili dietro gli occhiali o il bel bambino biondo, pauroso, nella diligenza che va a Yarmouth. Dickens narra con tale precisione, con tale minuziosità, da costringerci a seguire il suo sguardo ipnotizzante. Non ha lo sguardo magico di Balzac i cui personaggi si formano caoticamente staccandosi dalla nube di fuoco delle loro passioni, ma uno sguardo tutto terreno, uno sguardo da marinaio, da cacciatore, uno sguardo di falco per le piccole cose umane. Ma sono le piccole cose, disse egli una volta, che formano il senso della vita. Il suo sguardo cerca i piccoli segni, vede la macchia sull'abito, i timidi gesti confusi dell'imbarazzo, afferra la ciocca di capelli rossi che spunta sotto una parrucca scura quando il suo proprietario va in collera. Avverte le più lievi sfumature, nota il movimento di ogni singolo dito in una stretta di mano, le gradazioni di un sorriso. 
Prima di essere scrittore egli era stato per anni stenografo al parlamento e s'era esercitato a rendere dei particolari in brevi note, a esprimere con un tratto di penna una parola, con un piccolo ghirigoro una frase. E così più tardi  adoperò nell'arte una specie di scrittura abbreviata della realtà, ponendo il segno minuto al posto della descrizione, ricavando profonde osservazioni dalle varie vicende. Per queste piccole esteriorità aveva una acutezza di sguardo impressionante, non v'era cosa che il suo occhio non percepisse; coglieva, come una buona lente di un apparecchio fotografico, in una centesima parte di minuto secondo, una mossa, un gesto. Nulla gli sfuggiva. E questa acutezza dell'occhio veniva ancora aumentata da una strana rifrazione dello sguardo che non rendeva l'oggetto, come uno specchio, nelle sue proporzioni naturali, ma, simile a uno specchio concavo, ne esagerava le caratteristiche. 
Dickens sottolinea sempre le caratteristiche dei suoi personaggi, le sposta dalla vista obiettiva verso l'esagerazione, verso la caricatura; le rende più intense, le innalza a simboli. Il panciuto Pickwick è anche psichicamente un po' pesante, il magro Jingle è arido, e così il cattivo è addirittura Satana, il buono la perfezione in persona. Dickens esagera come ogni grande artista, ma esagerando non cerca il grandioso, bensì l'umoristico. Tutto l'effetto della sua narrazione indicibilmente divertente non scaturisce tanto dal suo buonumore, non tanto dalla sua allegria, quanto da quella strana posizione dell'occhio che rispecchiava con la sua superacutezza ogni fenomeno della vita in un modo bizzarro, in una luce di caricatura.
Stefan Zweig Drei Meister. Balzac, Dickens, Dostojewski

mercoledì 11 aprile 2012

Prati di tenerezza - di Arturo Onofri

Prati di tenerezza,
ove i gialli boccheggiano dal buio
Dall’alto i vetri diafani del cielo
Ricovano liddentro uova novizie
Di vecchi credi e d’ali,
che s’apriranno, senza raccoltarlo,
in stagioni e primizie.


Ma quando mi vorrai non ti vorrò,
o riluttante soffio degli aprili,
che inducesti a linguaggio i desideri
tuoi nell’arcano scheletro ch’io porto.
Ti sottrai, per la gioia di covarti
Ossa sempre ambulanti, in quanto umane;
ma se vorrai far ressa di profumi
alle serrate glandole del sole
per indurle a sbocciare ali, carezze,
solfe azzurre e capricci di regine,
troverai solo un no nero d’acciaio,
nel mio tormento gaio.



Riprodiga, se vuoi, voli e bisbigli
E affrettate verdure dappertutto,
a smorzare in sordine di tappeti
le tue fughe affannose!
Ma cristalli di risa nasceranno
Dalle fontane, al suono del tuo passo:
friabili ombre sotto i gialli appiombi
delle impudiche estività, che spasimano
di funerari amplessi
in mille mila sessi:
in tanti innumerevoli me stessi.

La via dell’oro

Mancavano pochi giorni alla Festa dell’Ascensione. Nell’aria tiepida, i cinguettii degli uccelli intenti a costruire i loro nidi si intrecciavano in un’unica melodia con il canto dei grilli. Teodoro, diretto a Macugnaga, camminava già da alcune ore. Nel primo tratto il sentiero, ben tracciato e costeggiato da una palizzata di legno, attraversava prati e pascoli che si stendevano a perdita d’occhio, poi, inoltrandosi nel bosco, si confondeva fra le pietre ricoperte di muschio. Per Teodoro non era facile seguire le indicazioni che aveva ricevuto: spesso si fermava, indeciso sulla direzione da prendere, talvolta era costretto a tornare sui suoi passi, osservando sempre la posizione del sole per orientarsi meglio.
Giunto a una radura, si sedette ai piedi di un grosso olmo: il fogliame non era ancora fitto, ma creava un’ombra confortevole e il terreno era morbido e asciutto. Trasse dal tascapane le sue provviste: una pagnotta, un bel pezzo di formaggio, una fiaschetta di vino di more. Dopo aver mangiato, si appoggiò al tronco dell’albero, lasciando vagare lo sguardo al gioco di luci e di ombre che il sole creava con le foglie mosse dal vento e facendosi trasportare dalla memoria ad altre giornate di primavera, quando non era tanto solo e il futuro gli appariva colmo di promesse… quanto tempo sembrava passato, quante cose erano successe!
Ma nulla era perduto, tutto poteva ricominciare, così come la natura trova nuova vita dopo l’inverno. A poco a poco dal sogno ad occhi aperti scivolò nel sonno, cullato dal fruscio del vento. Nel sonno gli parve di udire le sue capre, il suono dei loro campanelli, poi il rumore si fece più forte, metallico… soldati? cercavano forse lui? Si svegliò, allarmato, raccolse in fretta il tascapane e si nascose dietro l’olmo.
Dal folto del bosco sbucò una figura mostruosa. Il sole alle sue spalle ne delineava la forma: era un essere di statura quasi gigantesca, ma del tutto deforme. Le spalle strette e le braccia lunghe mal si raccordavano alla parte inferiore del corpo che appariva gonfia come un otre pieno e terminava con due zampe enormi ricoperte di peli. La testa era ancor più spaventosa: piatta e larga a dismisura era sormontata da un paio di corna!
“Il diavolo del meriggio!” inorridì Teodoro, facendosi il segno della croce.

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