domenica 10 maggio 2020

La benedizione di Rembrandt

Rembrandt “Giacobbe benedice i figli di Giuseppe, 1656 Pinacoteca di Kassel 



Secondo Rudolf Steiner, quanto si esprime nelle immagini di Apollo o di Michele in lotta con il drago o in motivi analoghi è la sorgente originaria da cui nasce tutta l’arte del chiaro-scuro. Quando si parla di chiaro-scuro si pensa immediatamente a Rembrandt, commemorato in tutto il mondo nel 1969 in occasione del trecentesimo anniversario della sua morte. L’opera di Rembrandt ha avuto una grande influenza in questi trecento anni, influenza la cui peculiarità corrisponde al carattere unico della sua opera.
Per esempio, lo storico dell’arte Carl Neumann1 descrive il giorno in cui vide per la prima volta a Kassel il quadro La benedizione di Giacobbe come il giorno in cui visse l’esperienza di Damasco, definendo “tempo dell’ignoranza” il periodo precedente a questa esperienza di illuminazione.
Quel giorno la sua vita si sarebbe divisa in due metà del tutto diverse. “E così quel quadro mi colpì al cuore dando un nuovo corso a tutta la mia vita successiva… ebbe fine quello stato di normalità in cui si trova un docente di storia dell’arte che fra le altre cose si occupa anche di Rembrandt… Rembrandt a Kassel mi strappò via con braccia gigantesche da tutta la terminologia consueta. Il suo patriarca morente e cieco scosse la mia povera anima, già in parte sveglia grazie ad esperienze di dolore, e le fece intuire come in un lampo che l’arte non è un imbellettamento della verità o un grazioso sogno gratificante… potei sentire fin nel midollo che le esperienze artistiche non sono limitate agli organi di senso, cioè a organi parziali dell’entità umana, ma che penetrano nell’insieme della profondità dell’anima... gli involucri del mio cuore si dissolsero.”
Rembrandt non soltanto scuote le anime, ma non lascia solo chi è stato scosso! In questo va di gran lunga oltre l’azione di coloro, ad esempio in campo letterario Strindberg, che riescono sì a muovere potentemente le anime e a sciogliere i lacci che le stringono, ma non irraggiano la forza iniziatica che fa del caos la porta di un ordine superiore. Questa incapacità è tipica di Strindberg e come mai, nella sua incarnazione come Strindberg il poeta, gli è stato preclusa questa benedizione, questo ruolo di alto sacerdote, lo si può comprendere alla luce delle considerazioni karmiche di Rudolf Steiner.
Da Rembrandt irraggia il pieno potere dell’alto sacerdote. Se si considera la vita dell’artista la si trova intrisa, si può proprio dire “spiritualizzata intrinsecamente”, da esperienze di morte. Vide morire tre figli ancora piccoli, la madre che dipinse così spesso e in modo così meraviglioso, la sposa Saskia, e tutto in un breve volgere di tempo. Durante la convivenza con Hendrikje morì il loro primo figlio, alcuni anni dopo la stessa Hendrikje e infine anche l’unico figlio molto amato, il ventottenne Tito. Dovette sopportare queste numerose perdite nei sessantatré anni della sua vita. Questa sequenza di eventi ebbe inizio nel 1636, cioè intorno al suo trentesimo anno di età; quel periodo così denso di dolorosi addii abbracciò un arco di tempo di trentatré anni. Quante settimane, mesi, anni di angosce per le amate vite che se ne andavano, quale lotta animica con le sfide dell’angelo della morte riempirono questa seconda metà della sua vita.
Il tema della lotta con l’angelo è il tema di Giacobbe. Rembrandt gli ha dato forma. Con la paura della morte propria e dei suoi, Giacobbe si sprofonda nella preghiera e affronta la lotta con l’angelo che dura tutta una notte. Era la “veglia notturna” in cui si mostrò che Giacobbe non riuscì a vincere l’angelo, però non fu sconfitto. Si potrebbe dire la stessa cosa per la vita di Rembrandt, la cui arte si manifestò sempre più grandiosa, quanto più intensa divenne la lotta. Neppure lui riuscì a vincere l’angelo; ma tutto ciò che il mondo ammira e sperimenta nella sua opera ci dice che neppure lui fu sconfitto. Più tardi Rembrandt dipinse il Giacobbe, che un tempo aveva lottato con l’angelo, come un vecchio che sul letto di morte dà la benedizione ai suoi nipoti. Non è l’usuale benedizione con un significato genealogico; questo gesto benedicente racchiude l’esperienza di colui che nella lotta con l’angelo gli disse: “Non ti lascerò andare prima che tu m’abbia benedetto!” Giacobbe è in grado di trasmettere direttamente la benedizione dell’angelo che si era conquistata.
Il quadro di Rembrandt è carico di questa corrente di benedizione. Il pittore stesso ha conquistato la forza di benedire, la troviamo in tutti i quadri dell’ultimo periodo. Questi quadri sono come patriarchi che accolgono col perdono i figli pentiti e che irraggiano calore dalla forza spirituale della vecchiaia. Ma la benevolenza carica di perdono così ampia ed estesa è al tempo stesso legata a un’impronta del tutto individuale. È sempre un singolo che diventa partecipe di questa forza benedicente. Nel caso di Giacobbe la cosa è molto chiara: non benedice secondo la legge che gli imporrebbe di farlo nella successione genealogica; non pone la mano destra sul primogenito, Manasse, ma sul fratello minore, Ephraim. La rottura con le leggi della genealogia in questo quadro è diventata spiritualmente ovvia. Nei genitori dei bambini non vi è meraviglia o dissenso, e la mano di Giuseppe sembra piuttosto sostenere la debole mano del padre.
Anche Il figliol prodigo che viene di nuovo accolto dal vecchio padre con una corrente di bontà carica di perdono è un singolo individuo, ma tutta l’opera esprime al contempo il messaggio: ognuno può diventare un individuo del genere! Una corrente di benedizione attraversa il mondo, può rendere luminose le cose e gli uomini più modesti, può rendere belle le cose brutte, dipende da noi se restiamo fermi nelle pieghe dell’oscurità.
Abbiamo sentito nella descrizione di Carl Neumann quale azione può provenire dai quadri di Rembrandt, per lui La benedizione di Giacobbe significò una cesura spirituale nel suo destino.
Un’ulteriore testimonianza ci conferma questo effetto in una modalità più “libera dal corpo” molto dopo la sua morte, come segno del suo ruolo di alto sacerdote che alla bontà deve unire anche la severità e l’ira.
Centotrent’anni dopo la morte di Rembrandt, nella notte fra il 15 e il 16 febbraio 1799, il giovane studente d’arte Philipp Otto Runge ebbe un sogno. In accademia incontra un vecchio compagno di classe e lo vede dipingere un quadro ad olio, sul quale stende “una spaventosa quantità di colore bianco”. Non ha il coraggio di dire al vecchio amico che la cosa è molto sciocca. Allora interviene Rembrandt quale professore, vestito come i nobili sacerdoti dei suoi quadri, tutto avvolto nella sua sacra oscurità. “Il cuore inizia a battermi forte quando lo vedo. Guarda quel che il mio amico aveva dipinto ed entra in grande agitazione. Tiene un discorso piuttosto lungo che si conclude più o meno con le parole: ‘Voi ragazzi usate in modo orrendamente gelido lo strumento che la musa vi offre, poi, freddi come il vostro cuore, stendete il vostro calcare e volete scoprire col vostro povero raziocinio ciò che il sentire di tutto il mondo non ha ancora finito di creare.’ Non so che cos’altro abbia detto, ma lo sento profondamente nella mia anima. Ha detto queste cose al mio amico il quale per la rabbia che il suo lavoro non venga lodato, strappa tutto. Rembrandt prosegue dicendo che tutta questa genia non merita di avere ancora i vecchi quadri e se ne torna indietro in cielo. Non potevo trattenermi. Anche a me era stata indirizzata una maledizione. Ho il presentimento che vi sia in gioco la mia beatitudine. Mi accascio, e il sogno termina. Improvvisamente mi sembra di svegliarmi e vedo Rembrandt che se ne va da una porta. E penso: devo andare da lui e affidarmi del tutto a lui, così come sono. Lo raggiungo nella stanza dove lo trovo seduto davanti a un suo quadro e piange. Sto per perdere i sensi vedendolo piangere. Cado ai suoi piedi, mi guarda e non ci diciamo nulla, ma non so più come sia stato il suo volto e come sia giunto sul suo collo. Mentre piango a dirotto, mi chiama il suo caro Otto. Non riesco a concepire un sentimento di maggior beatitudine che mi riempie. Sento che mi risveglio e ancora che ho pianto molto. Non mi è mai più avvenuto di avere un sogno in un tale scenario, con tale chiarezza.” (lettera a Friedrich Perthes, 16 dicembre 1799).
Runge, un vero ricercatore sulla via dell’arte, ha questo incontro notturno con Rembrandt in un sogno che si differenzia da tutti gli altri sogni per chiarezza e per la profondità del suo effetto. Si desta una seconda volta e sperimenta poi un contatto personale con Rembrandt nella nobile veste di sacerdote che compare quale maestro in una accademia d’arte, in un certo senso una accademia spirituale, dove i ricercatori sul cammino dell’arte vengono giudicati con criteri diversi rispetto a quelli terreni, anche, come unico. La maledizione che aveva sentito nelle parole di Rembrandt come rivolta anche a lui, riesce a trasformarla in una benedizione, in quanto porta in sé coraggio e devozione dell’anima, affidandosi del tutto al maestro.
Certamente un sogno del genere non sarebbe apparso nella sua anima se prima non vi fosse stata l’azione dell’opera di Rembrandt; Runge, come più tardi Neumann, sperimentò che questa opera può portare in modo così diretto alla entità del maestro come nessun’altra opera artistica.
1- Carl Neumann, “Die Kunstwissenschaft der Gegenwart in Selbstdarstellungen“, Leipzig 1924
 
Hella Krause Zimmer, da “Imagination und Offenbarung“, Freies Geistesleben, 2004 
Traduzione di Stefano Pederiva











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