venerdì 30 settembre 2011

Il sogno



Ho fatto un sogno questa notte. Mi trovavo sotto un albero di mele, per terra sette ceste colme di frutti...e li vedevo arrivare, come quel giorno di tanti anni fa. Il suono delle loro voci li precedeva, ma non erano  più lugubri inni, erano canzoni allegre che cantavano la primavera e l’amore. Poi li scorgevo, lungo il sentiero che scende dalla montagna: sorridevano e recavano doni, pagnotte dorate, focacce dolci, morbidi panni di lana. Tutta la gente del villaggio accorreva e fino a notte tarda ballavamo intorno ai fuochi, in pace e letizia, come se non avessimo mai subito torti da loro, come se non ci fossimo mai alleati con i loro nemici… 


In questo momento la luce fioca del tramonto illumina a mala pena il grande vaso di terra cotta dove qualche moscerino è ancora attirato dall’odore dolce del succo di mela. Oggi abbiamo preparato il sidro: alcune di noi hanno lavato le mele, altre le hanno frantumate, altre ancora le hanno torchiate; infine abbiamo travasato il succo nelle piccole botti di legno, dove resterà a fermentare per qualche settimana. Poi lo potremo scambiare con orzo e farina : le altre provviste sono già nel magazzino e la legna raccolta in cataste. La breve nevicata dei giorni scorsi lascia presagire un inverno mite, come dicono i nostri proverbi. 

Dalla finestra le case sparse tra gli alberi e la chiesa in pietra mi appaiono come sagome scure: oltre quei muri i pregiudizi e il malanimo ci hanno osteggiato a lungo. La gente e i preti non volevano accettare che tante donne sole vivessero insieme, lavorando e aiutandosi a vicenda. 

Quando l’Eretico e i suoi furono sconfitti, il sangue versato, i morti che piangevamo, la miseria e la carestia, tutto questo accomunò noi che eravamo rimaste orfane, abbandonate o vedove. Alcune donne che, per evitare la condanna a morte, avevano dovuto rinnegare non solo ciò in cui avevano creduto, ma la loro vita di quegli anni e i compagni uccisi, chiesero di poter entrare nella nostra piccola comunità. All’inizio le accogliemmo con diffidenza, più per la necessità di avere altre braccia a lavorare che per autentica carità cristiana. Quanto a me, non potevo ancora perdonare all’Eretico e a chi era stato con lui d’aver distrutto i miei sogni più belli. 

giovedì 29 settembre 2011

Sul sentiero di Fra Dolcino

«Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi,
tu che forse vedra' il sole in breve,
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve»

                                          Dante Inferno, Canto XXVIII







                 il sentiero nel bosco

              i funghi della strega








                                                                                                                                                                                                                                   


                        il gigante sconfitto












ultimi colori dell'estate









domenica 11 settembre 2011

Settembre - di Fabio Tombari

I fiumi, la prima bora, le strade. Strade che costeggiano la marina e si smarriscono qua e là lungo i tigli e i tamerici umidi dei viali, sotto le prime ville chiuse e i giardini lambiti dalle onde; strade lunghe, deserte, sorvolate in alto da grandi uccelli di mare nel vento; strade caliginose battute dalla pioggia; quando le signorine di provincia escono coi gomitoli di lana e coi quaderni per recarsi da un’amica vicina a fare la maglia o a riprendere lezioni di piano; mentre nei sobborghi o lungo le spiagge, le passeggiate dei seminaristi somigliano ad accompagni funebri senza feretro.

È questo il mese in cui ogni distanza dà il senso della nostalgia, quando l’orizzonte si perde dentro chiusi orizzonti, e l’estate ritrova finalmente nella morte la propria nobiltà.

I fiumi traboccati via a fuga dalle doghe della montagna cominciano a invadere le arcate laterali dei ponti. Passano sulle acque sporche le spoglie d’una stagione compiuta, gli ultimi avanzi di un’età fradicia che la prima mareggiata rigetterà sulle coste insudiciando le spiagge.

Sono belle in settembre le grosse burrasche, gli scuri di riva visti dal largo, per i quali tutta la baia s’imbruna sotto la minaccia dell’uragano, mentre le ondate irrompono fin nei capanni, e i maschietti che han letto Salgari non vogliono più uscire.

È così bello col capanno che minaccia un naufragio in piena regola e le tavole che scricchiolano e la spuma che monta. Questa è la nave maledetta e loro i pirati della Malesia.

“Corpo di mille bombarde!” grida il più piccino, “Venderò cara la mia vecchia carcassa”.
Le bambine invece tornano alla spiaggia con le calze e le scarpette, e la bambola cui han messo la cuffia perché fa fresco. Vengono a salutare le amiche e gli amici che partono; qualcuna ha il cuoricino gonfio. Parte anche Giorgio proprietario del canotto di gomma. È mezz’ora che stanno lì a salutarlo, tutte intorno a lui; e mentre Giorgio se ne va felice, le bambine si metterebbero a piangere se non avessero ritegno una dell’altra.

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