domenica 26 aprile 2020

Uomo in armatura (Rembrandt)


Rembrandt, Uomo in armatura, 1655 Art Gallery and Museum, Glasgow
Sul nr. 38/1984 della rivista “Das Goetheanum”, Dirk Vis ha tentato, e va ringraziato per questo, di correggere indicazioni errate e mezze verità che si tramandano riguardo a questo quadro. Rimane però il dubbio, per diversi motivi, se così sia stata vinta la affascinante chimera di queste “tradizioni”, in quanto ne emergono sempre nuove teste. Nel 1983 mi venne riferito che una antroposofa, mancata poco tempo prima, si era fatta mostrare il retro del quadro nel Glasgow Museum e che vi avesse letto la scritta “Questo è l’uomo che mi insegnò il segreto del chiaro scuro”. Conoscevo quella persona, sapevo che era coscienziosa, oggettiva, scientifica; non riuscivo però assolutamente a immaginare che al museo avessero acconsentito a girare il quadro. Tentai con l’aiuto di amici inglesi di andare a fondo alla cosa. Grazie al signor Mann dell’Emerson College, o meglio del signor Hess di Glasgow, potei mettermi in contatto con il direttore del museo, signor Stevenson, che mi disse: “Sul quadro non si è trovata nessuna scritta, neppure un’accurata ricerca ai raggi X ha dato risultati”.

Nel suo articolo, Dirk Vis ci assicura inoltre che non esiste un elenco autografo di Rembrandt e che quindi la frase tramandata non può essere stata letta lì (neppure lì). La cosa ha un effetto tranquillizzante in quanto finalmente ci si trova sul “terreno dei fatti”. Se però si tiene conto che anche ai nostri giorni avviene che dagli archivi spariscano senza lasciare traccia documenti importanti, come pure oggetti esposti nei musei che anni prima erano visibili, il terreno diventa di nuovo meno sicuro. Viceversa, capita anche che improvvisamente emergano documenti che ribaltano del tutto i fatti “certi”. Anche in questo caso perciò non va esclusa del tutto la possibilità che la frase non sia stata semplicemente inventata e che un giorno possa venire a galla la soluzione dell’enigma.
Dalla lettera della signora Lindholm citata da Vis, emerge che non doveva trattarsi di un elenco, bensì di annotazioni che Rembrandt prendeva riguardo ai propri quadri (1).
Anche se fosse stata scritta da Rembrandt, quella frase non screditerebbe, come teme Vis, tutte le sue opere precedenti, in quanto non implica affatto che Rembrandt abbia conosciuto l’uomo solo quando ne ha fatto il ritratto.
Dirk Vis riferisce poi la storia della nascita di questo quadro: si trattava di un ritratto di Alessandro commissionato da un collezionista di quadri; vanno quindi escluse tutte le circostanze che hanno portato alle leggende antroposofiche. Rimangono aperti però alcuni grossi interrogativi, perché la “biografia” del quadro è del tutto incerta e vi sono diverse ipotesi contrastanti. Gli esperti di arte indicano il quadro come Marte, come giovane guerriero, come uomo in armatura, in precedenza anche come Achille o appunto come Alessandro, ma sempre con molti punti interrogativi. Come è noto da uno scambio di lettere, citato anche da Vis, il collezionista Ruffo aveva commissionato a Rembrandt un “Alessandro”, come contrappeso all’Aristotele già realizzato. Si lamenta riguardo alla prima versione “che il quadro sia dipinto su quattro pezzi di tela cuciti insieme”. Vis cita l’episodio e prosegue scrivendo che il quadro ora a Glasgow consiste “in effetti di diversi pezzi di tela cuciti insieme”. Non dice “quattro”. Per quanto abbia potuto verificare nell’originale, la tela ha una aggiunta in basso e lateralmente a destra. Ma da parte di diversi ricercatori si suppone che le aggiunte siano state fatte solo più tardi, nel XVIII secolo; non si tratterebbe quindi di una tela cucita insieme da Rembrandt. Diversamente sorge la domanda se Rembrandt non abbia avuto la necessità di ingrandire la tela anche in altri suoi quadri, quando gli serviva una superficie maggiore per il suo lavoro. Anche qui non abbiamo certezze, ma solo supposizioni. Anche la data dell’anno 1655, che in passato era visibile e che oggi non è più riconoscibile, escluderebbe l’identificazione di questo quadro con quello ordinato da Ruffo.
In tutte queste riflessioni si è però del tutto dimenticata una cosa, cioè il quadro stesso! Che cosa vi si vede in realtà? Si vede un uomo con una corazza, un elmo, uno scudo e una lancia, il cui volto leggermente riflessivo fa apparire la corazza e le armi di natura piuttosto simbolica. Sulla corazza del torace, evidentemente un farsetto di cuoio, appare una croce segnata dalla luce e sopra il cuore la corazza si trasforma in modo veramente singolare in penne di cigno bianche e luminose. L’area è attraversata da una cinghia di cuoio, e quindi ne risalta ancor di più il chiarore. Il portamento dell’uomo è eretto, il viso leggermente inclinato a partire dal collo, le spalle quiete e diritte. Sotto il mento vi è un fiocco, una specie di Lavallière, tenuto da una spilla decorativa. Con il rosso pieno di forza del mantello si aggiunge una decisa componente di coraggio.
Due parti hanno uno splendore particolare: il forte riflesso luminoso dell’elmo e le penne bianche come neve nella regione del cuore.
Non sappiamo nulla sull’origine di questo quadro. Se la figura dipinta si è fatta ritrarre in questo atteggiamento oppure se Rembrandt vi ha condensato i ricordi di una persona di cui aveva forse potuto fare uno studio ritrattistico.
Il volto leggermente inclinato ci mostra un uomo di mezza età, fra i 35 e i 50 anni. L’ipotesi che Rembrandt abbia ritratto qui il figlio Tito trasformandolo in un “Alessandro”, mi sembra poco plausibile. Perché Rembrandt avrebbe dovuto trasformare un volto giovane in quello di un uomo maturo, dato che è tipico di Alessandro proprio il tratto giovanile?
Ma soprattutto, un’armatura normale non mostra una croce di luce e meno ancora che ne nascano delle penne di cigno. Con questi segni Rembrandt ha caratterizzato la figura dipinta come un uomo che è legato alla croce, ma in un modo particolare. Avrebbe potuto dipingere una croce templare o una decorazione corrispondente. Vi aggiunge un elemento del tutto innaturale, le penne di cigno. Una cosa del genere era necessaria e adeguata a un Alessandro ordinatogli dal collezionista italiano?
Il ritratto “Atena” o “Alessandro” di Lisbona, anch’esso preso in considerazione per l’ordinazione di Ruffo, mostra chiaramente il tratto giovanile. Entrambi i quadri, lo facciamo notare solo marginalmente, possono venir osservati in una ottica del tutto diversa che fa emergere la peculiarità del cavaliere di Glasgow.
La forma dell’elmo, che colpisce per la sua nobiltà, è in sintonia con le penne di cigno. La cima che si alza sopra la testa ed è leggermente rivolta all’indietro, può ricordare le ali aperte di un cigno in volo. Se Rudolf Steiner (come ricorda D. Vis, o meglio H. Wiesberger) scrisse dietro una riproduzione di questo quadro per la signora von Vacano, le parole di Elsa dal Lohengrin di Wagner: “Voglio salvare il cavaliere, deve essere il mio combattente”, non sono necessarie particolari speculazioni per trovarvi il nesso con il quadro.
Con le due peculiarità con cui Rembrandt qualifica quest’uomo, si rafforza ancora l’impressione che viene sia dal volto sia da tutto il quadro nel suo insieme. La croce di luce e le penne di cigno suscitano domande nell’osservatore. Sta poi nel quadro stesso il fatto che queste domande vadano in una certa direzione. Gli enigmi che ruotano intorno a questa personalità sono quindi già suscitati dal pittore.
La percezione di questo quadro particolare collima con una frase di Rudolf Steiner tramandata come autentica, e cioè la sua intenzione di regalare alla signora Geelmuyden un quadro del conte di Saint Germain “nella sua incarnazione olandese”. Se Rudolf Steiner riteneva possibile procurarsi una riproduzione, doveva trattarsi di un quadro noto. È comprensibile che si sia pensato all’“Uomo in armatura”.
Qui sembra chiudersi una catena, anche se con passaggi non dimostrati. Le linee convergono da due lati. Dalla raffigurazione di Rembrandt si evince che deve trattarsi di una personalità particolare, di un combattente cristiano che tuttavia si presenta piuttosto come un cavaliere dello spirito. Questa fu anche la sensazione di Marie Steiner. Le sue parole, che si trovano nei suoi “Ricordi”, riportano anche le frasi seguenti: “Elmo, scudo e lancia, così come si adattano a questa figura, caratterizzano come in nessun altro quadro, il cavaliere spirituale che, intessuto di interiorità e di scienza, dispone di queste armi solo a servizio dell’umanità. Non si sarebbe potuto fare un quadro migliore di Rudolf Steiner, dato che nel nostro tempo mancano le capacità estetiche per ritrarre in un’immagine sensibile il contenuto spirituale...”
Non è prerogativa solo degli antroposofi avere una impressione del genere. Carl Neumann scrisse dei “tratti impenetrabili ed enigmatici del volto” e di come “questo volto con il suo involucro di ombre resti l’oggetto principale (del quadro). Il misterioso rilucere emerge da un nucleo scuro che desta sentori e brividi. Il custode di un tesoro, di un Graal, di qualche realtà elevata, si potrebbe supporre. Il quadro ricorda con una mistica ricca di incanto un punto del Flauto magico di Mozart in cui due uomini corazzati montano la guardia davanti alla porta chiusa degli elementi fuoco e acqua … Si ha il sentore di essere davanti a una realtà straordinaria, che porte oscure aprano le loro bocche e che solo il massimo coraggio del cuore sia in grado di vincerne gli orrori,” (2)
Nelle considerazioni degli storici dell’arte non si parla quasi mai della croce di luce e delle penne di cigno. Si ha l’impressione che i commentatori siano in difficoltà e si vergognino ad ammettere che Rembrandt abbia dipinto qualcosa di così strano. Appunto, è del tutto inusuale. È come una immaginazione che si manifesta esteriormente in un quadro.
Il quadro, il cui colore di fondo è un marrone che tende più verso tonalità verdi che rosse (come si vede in molte riproduzioni), non suggerisce un’atmosfera diurna, ma notturna. Si guarda in uno spazio che per l’osservatore è quasi troppo scuro per scorgervi qualcosa. Non si riesce a immaginare la luce, poco legata al corpo e poco plastica, che mostra l’uomo tutto avvolto dallo spazio scuro del quadro, come la luce di una lanterna stradale o di una fiaccola. Tutto esprime essenzialità e costituisce l’unitarietà del quadro. La cima dell’elmo rivolta verso l’alto sembra indicare da dove l’uomo prende le proprie forze di consapevolezza e di coraggio. Se si copre questa parte superiore dell’elmo, ci si accorge che la figura dà l’impressione di essere molto più terrestre e limitata, ma per il quadro sarebbe ovviamente del tutto sbagliato fare una operazione del genere.
Guardando il dipinto scopriamo che Rembrandt trasmette al nostro sentire realtà molteplici: l’“Uomo in armatura”, il “Guerriero sconosciuto”, il crociato senza segni esteriori dell’appartenenza a qualche ordine, guidato dal mondo soprasensibile come lo sono i Cavalieri del cigno. Egli ha riconosciuto un uomo del suo tempo come una entità di questo tipo. Chi può essere stato questo uomo? La corrispondenza con le parole di Rudolf Steiner è in verità molto forte.

1- H. K. Zimmer si riferisce qui ad una lettera di Ingeborg Möller-Lindholm a Karl Heyer ricordata da D. Vis: «Uno storico dell’arte olandese (antroposofo) ha raccontato alla signora Geelmuyden quanto segue: voleva scrivere qualcosa su Rembrandt ed ebbe l’occasione di vedere in un archivio o in un museo in Olanda una piccola annotazione di Rembrandt sui suoi quadri. In corrispondenza del quadro in questione aveva scritto in modo lapidario: “Ritratto di colui che mi insegnò il segreto di luce e tenebra.”»
2- Carl Neumann Rembrandt, 2 volumi, Monaco 1924



Hella Krause-Zimmer, da “Imagination und Offenbarung“, Verlag Freies Geistesleben, 2004
(Traduzione di Stefano Pederiva)

sabato 25 aprile 2020

Due ritratti – due polarità


Ritratto di uomo (detto “Ariosto”) National Gallery

Se ci troviamo alla National Gallery di Londra, davanti al “Ritratto di uomo” dipinto da Tiziano (intorno al 1476-1576), notiamo prima di tutto la voluminosa manica di seta blu trapuntata, dipinta con grande perizia: la stoffa. E sopra la testa consapevole di sé. Su che cosa poggia questa autocoscienza? Nel senso dell’immagine: sulla stoffa. In senso più ampio: sulla materia. L’uomo non mostra molto di sé, non una bella mano, o il petto. Al nostro interesse per la sua personalità risponde con la manica rigonfia e preziosa, fredda nel colore. La costruzione della personalità si fonda su questo blu tendente al grigio che forma una specie di basamento. Una elevazione del sé sulla resistenza della materialità. Vi adatta di conseguenza il suo atteggiamento. E gli riesce. Un uomo del Rinascimento che possiamo immaginare come ospite a una tavola di cui sa apprezzare il cibo, ambizioso, vanitoso, ma non senza un certo tratto di grandezza. Ha delle ambizioni e porta le tracce dello stile mondano della Venezia di allora. Sa di essere importante e desidera che gli altri lo notino. Certo vi è anche una predisposizione all’ironia che sa prendersi gioco dei grandi propositi. La tendenza ad abbassare gli angoli della bocca è sottolineata dal modo in cui viene dipinta la barba. I capelli e la barba sono molto curati per essere adatti al volto. Non compaiono tempeste celesti, né fiamme di passione. Mantello nero, colletto bianco, su uno sfondo verde del tutto immobile. Nessun movimento libero. Fin nei moti di pensiero si sente come ideale: il sostegno della realtà terrestre. Nessuna mano aperta, non ci lascia leggere le carte, mette davanti la “spalla fredda”. Un quadro magistrale. I mezzi espressivi e quanto si vuole dire si compenetrano.


Autoritratto a 63 anni, 1669, National Gallery, Londra
Nello stesso museo: un ritratto, di cent’anni dopo all’incirca, un Autoritratto di Rembrandt. Solo tonalità calde, marroni e rossicce, con un sottile bordo bianco che emerge dal berretto e una luce bianca con tonalità gialle sul volto. La posizione nel dipinto è simile, ma l’atteggiamento è radicalmente diverso, come lo sono i colori. La spalla destra sembra ritrarsi, mentre il petto qui è visibile. Il braccio non viene sollevato e non fa da appoggio, la spalla tende verso il basso. Il mantello di pelliccia non ha nulla di decorativo, nessun adattamento, serve solo per scaldare. E così è dipinto. La manica: avvolgente, calda, priva di ornamenti, ma non indifferente e trascurata. Il volto consente alla luce di scoprirne tutti i rilievi con i loro chiari e scuri, le loro ombre. Nulla di nascosto, nessuna posa. Lo sguardo leggermente abbassato guarda fuori dal quadro, incontro all’osservatore, ma non si rivolge a lui. È un autoritratto: il pittore guarda se stesso. Nessun volto liscio, per quanto senza barba, nessuno sguardo artefatto che intenda confermare l’atteggiamento della spalla. L’uomo del Rinascimento è superato. È svanita la coscienza gonfia di orgoglio alle soglie della nuova epoca; preoccupazioni e lotte interiori gravano sulla vita. Il pittore ha sessantatré anni. Capelli grigi spuntano da sotto il berretto.
Quanta strada dall’autoritratto di Rembrandt con il grande cappello e le gloriose penne! E’ tutto passato, non esiste più. Ma non vi è un capo chino, o una grigia povertà. Neppure la ricerca di una dignità della vecchiaia, nulla di tutto ciò. Perché il quadro ci scuote? E’ sul filo sottile della rassegnazione, ma è senza rassegnazione. Una consapevolezza. Colui che qui guarda se stesso, non vuole farsi illusioni di sé. Guardare soltanto come sono le cose e come sono state. E sopportare questo sguardo, accettarlo. Si prende in mano da sé, un cerchio chiuso, cerca la disposizione interiore in se stesso. La fine della vita non è lontana, Rembrandt morirà quello stesso anno. Tutto ciò che era si distacca da lui: trionfi, errori, sguardo indagatore verso ciò che è importante. Esercizio a tener testa con pazienza. Oggettivamente, senza aggiunte o cose da togliere. Non fa smorfie, non ride di sé, non si fa un esame. La riflessione poggia sul disegno del destino nella sua vita e sui segni che gli ha lasciato sul volto. Dietro a questa calma si placano le tempeste della ricerca del proprio sé. Attraverso tutti i volti sempre di nuovo lo sguardo ai propri tratti. Ancora ora. Ma ora sembra trovare qualcosa che non ha mai trovato prima. Perché non cerca più per questa vita: solo autoconoscenza. Un uomo maturo per vedere il suo karma, che trattiene le scosse, che sopporta se stesso.


Due ritratti, due mondi. La sicurezza delle forme di uno, le belle proporzioni, il consapevole accordo di colori, tutto questo è sulla via che cerca la bellezza, l’idealizzazione (la bella apparenza), la realizzazione delle leggi estetiche. Questa via ideale entra in contraddizione con se stessa, se la si imbocca per innalzare una personalità troppo terrena. Tocca allora, o la supera, la soglia dell’alterigia. L’altro ritratto: qui pittoricamente non si percorre una via orientata all’apparenza e al gioco delle belle forme. Questa via non segue la bellezza, ma la bontà. La bontà diviene bellezza da dentro e mette in una luce che non è esteriore le rughe e l’età, una luce la cui qualità si sente come grazia. La grazia quale interiore elemento divino rende possibile l’esistenza umana e compenetra il corso della vita. L’uomo sul quadro ha una sicura consapevolezza di sé, non si sente delimitato, ma immerso e avvolto. L’alterigia personale si è sciolta, l’individualità guarda attraverso la maschera terrena, dà l’atteggiamento, configura i tratti del volto e osserva attraverso gli occhi l’apparizione peritura, nutrita dalle profondità dell’imperituro. A questa autocoscienza si accompagna devozione.
L’elemento apollineo è diventato freddo nell’uomo di Tiziano. La personalità terrena assorbe più di quanto voleva da questa componente terrena. L’elemento dionisiaco è diventato portatore dell’umano in Rembrandt. Luce di fiaccola diviene calore dell’anima.
Il primo quadro si ammira. Il secondo quadro muove l’anima e desta la coscienza per il destino.
Hella Krause-Zimmer, da “Imagination und Offenbarung“, Freies Geistesleben, 2004
(Traduzione di Stefano Pederiva)

domenica 12 aprile 2020

L’esperienza di Maria di Magdala


Il Risorto e Maria Maddalena. Codex Aureus Epternacensis, intorno al 1030, 
Norimberga, Museo nazionale germanico

Nel racconto della Bibbia, Maria Maddalena scambia il Risorto per un giardiniere; per questo verso la fine del medioevo e nel Rinascimento il Cristo veniva raffigurato con una vanga o un piccone, talvolta anche con un cappello da giardiniere. Nelle miniature medioevali questa idea non era presente. L’immagine momentanea, che si presenta allo sguardo non ancora del tutto desto della Maddalena, influenzata dall’idea che fosse il giardiniere, rivestiva poca importanza rispetto alla verità che si trattava del Cristo risorto.

Una miniatura del Codex Aureus Epternacensis (1030 circa) è un esempio molto significativo di questo modo antico di rappresentare la scena. Su uno sfondo di un luminoso rosso le figure spiccano con grande rilievo. Al giardino si accenna soltanto con qualche pianta stilizzata. Rispetto a raffigurazioni successive, che raccontano tante cose: erbe, fiori, alberi e siepi, qui tutto è limitato alle forme espressive più sintetiche, agli elementi essenziali. Sono immagini ancora più vicine alla parola, rispetto alle “illustrazioni” della situazione. Dal silenzio dei gesti si svela interiormente all’osservatore la parola della Bibbia. Tutto rimane in un processo più spirituale che si intensifica fino alla solennità, grazie alla preziosità del colore e all’uso dell’oro.

La figura della Maddalena, notevolmente più piccola del Cristo, si inchina piegando la testa, che è quasi orizzontale, così come le mani: la testa è coperta da un velo che nasconde i capelli. Presso il sarcofago con i lini ripiegati stanno due angeli, testimoni dell’evento. Raffigurati di profilo sottolineano l’importanza dell’evento con il gesto che lo indica. La grande aura del Cristo, con una croce celeste nell’oro, porta nell’immagine la spiritualità di un sole spirituale.

Il movimento del Cristo ha una grazia complicata, quasi di danza: non si china verso la donna con il braccio che sta nello sfondo, come si vede in un'altra miniatura (illustrazione del Vangelo di Echternach di Enrico II, intorno al 1040) nella quale il Cristo si piega semplicemente in direzione della donna allungando il braccio destro; qui vi è un movimento di incrocio: con la testa a sinistra verso il basso e il braccio portato in avanti verso destra in alto. Sembra che si stia allontanando, ma poi viene dato risalto a questo suo volgersi indietro. Tutta la figura è come attraversata da una melodia.

Il Risorto e Maria Maddalena. Dal Vangelo illustrato di Echternach 
di Enrico III, intorno al 1040. Brema, Biblioteca universitaria
L’altra scena è più naturalistica, con le foglie verdi di un “vero” albero. Gli angeli, di semi-profilo, non sono rivolti in modo così severo verso l’altra metà del quadro. Nella destra portano uno scettro d’oro, il palmo della mano sinistra è aperto, sollevato verso l’alto. Le loro ali sono aperte in modo asimmetrico, l’ala sinistra accompagna il movimento della mano rivolta verso l’alto. Maria Maddalena ha qui i capelli sciolti, è a capo scoperto, ma la sua devozione è espressa in modo ancora più drammatico. Colta da spavento per l’apparizione del Cristo si ripiega su se stessa in avanti, con la parte superiore del corpo orizzontale.

Si potrebbe fare un confronto con la composizione della scena in epoche successive, anche solo osservando in ognuna la figura di Maria Maddalena: si riconoscerebbe così il salto interiore nell’evoluzione avvenuto verso il XIII, XIV, XV secolo. Troviamo in tutti, anche nel Beato Angelico, una Maddalena del tutto diversa, una Maddalena che guarda il Cristo! Nonostante la devozione che molti quadri riescono ad esprimere in modo molto bello e ricco di anima, l’atteggiamento è più libero, più consapevole, più eretto. L’uomo del XV secolo è un uomo diverso da quello del XI secolo. La grandezza spirituale piena di potenza della figura del Cristo tende a diminuire (come se si riducesse a “giardiniere” per non incutere troppo spavento all’anima dell’uomo), la consapevolezza e il senso di sé degli uomini sono cresciuti. In modo molto diverso entra in gioco ora il contrasto fra la donna e il Risorto. L’evento diviene più ricco e differenziato. Vi sono meraviglia, ammirazione, venerazione, spavento, nostalgia e ritrosia, ma non si trova più il semplice sottomettersi dell’anima, l’atteggiamento monacale del medioevo. Il cambiamento di stile è espressione di trasformazione interiore.  Non vi è un tornare indietro.

Hella Krause-Zimmer, da “Offenbare Geheimnisse der christlichen Jahresfeste“ Freies Geistesleben 2003
Traduzione di Stefano Pederiva

giovedì 9 aprile 2020

Il discepolo Giovanni – Lazzaro-Giovanni



Albrecht Dürer, L'Ultima Cena, xilografia della serie la "grande Passione"

L’indicazione di Rudolf Steiner secondo cui la figura che riposa sul cuore di Gesù è Lazzaro, solleva molte domande. Quale relazione esisteva fra Lazzaro–Giovanni e il discepolo di nome Giovanni, fratello di Giacomo, entrambi chiamati “figli del tuono”? Ma se nell’Ultima Cena colui che s’appoggia al petto di Gesù non è il Giovanni della cerchia dei dodici discepoli, come di solito si suppone, allora intorno al Maestro dovrebbero essere raccolte almeno tredici persone.
Nell’arte cristiana si trova qualche traccia, vi sono immagini con tredici discepoli?
Sì, si trovano quadri con tredici e anche più persone, ma sono estremamente rari e non è detto che nella figura in sovrannumero vada individuato Lazzaro. Potevano essere i committenti che volevano essere raffigurati come devoti presenti sulla scena, o potrebbero essere servitori. Vi è però un quadro che è univoco. Non solo raccoglie intorno al Maestro tredici figure, ma fa anche una chiara distinzione fra il discepolo Giovanni e Lazzaro–Giovanni, ed è una xilografia di Albrecht Dürer che fa parte della serie: la “Grande passione”.
La maggior parte delle raffigurazioni dell’Ultima Cena mostrano un motivo presente solo nel vangelo di Giovanni, il motivo del “discepolo che Gesù amava” e che stava “reclinato sul petto di Gesù”. Un’eccezione famosa è il Cenacolo di Leonardo. Giovanni è seduto alla destra del Maestro. Si piega all’indietro, scostandosi per ascoltare Pietro che lo incarica di domandare al Cristo chi sia il traditore di cui ha appena parlato. L’opinione corrente è che sia appunto Giovanni, il discepolo che Gesù amava. Lasciamo aperta qui la questione se Leonardo abbia fuso in un’unica figura i due Giovanni: il suo Giovanni non mostra solo giovinezza, bensì anche il mistero di una profonda maturità interiore. Anche il suo atteggiamento lo mette in evidenza rispetto all’agitazione degli altri discepoli, dando l’impressione che egli comprenda il grande dramma da una prospettiva del tutto diversa da quella degli altri. Non si può riconoscere in lui Giovanni, il discepolo che Gesù amava, dal fatto che s’appoggia al petto di Gesù; abbiamo però l’indicazione di Pietro che lo esorta a chiedere al Maestro.
Albrecht Dürer ripartisce questi due segni di riconoscimento su due persone: un discepolo s’appoggia al petto del Cristo, un altro, seduto alla sua destra come in Leonardo, pone la domanda, sollecitato da Pietro. Dürer distingue dunque il discepolo che Gesù amava, Giovanni, da un tredicesimo discepolo.
Anche qui è rappresentato il momento in cui risuonano le parole: “Uno di voi mi tradirà”. Giovanni, seduto vicino al Cristo e verso il quale Pietro si piega, indica con un ampio gesto il gruppo di discepoli che si trova dalla stessa parte della tavola. Sembra chiedere: “Se è uno di noi, di chi si tratta?”. Come nella descrizione del vangelo, i discepoli si guardavano fra di loro, in preda all’angoscia si domandavano chi fosse. Questo guardarsi fra loro viene messo molto in risalto. Comprende anche il discepolo che appare solo di profilo a sinistra. A lui si rivolge il discepolo con la barba vicino a Pietro. Ci è chiaro così che non può trattarsi di una figura secondaria, perché in quel momento nessuno si sarebbe rivolto a un servitore o a un ospite. Del resto, la composizione così densa è costruita chiaramente in modo che emerga l’evento rappresentato al centro, senza cercare personaggi secondari.
Vediamo dunque Giovanni seduto alla destra del Cristo, mentre l’altro viene tratto a sé dal Cristo e si trova così sulla linea centrale del quadro, rimarcata con chiarezza in alto dall’incrocio delle volte, in basso dalla gamba del tavolo e dalla piega della tovaglia. Su questa linea vi è anche l’agnello. Si potrebbe sentire che il Cristo, guardando verso il basso, indirizzi quel particolare discepolo verso l’agnello in parte mangiato, quale simbolo della sua imminente morte sacrificale. “L’ora è vicina”, questa consapevolezza aleggia sul gruppo che sta al centro. È isolato. Chi è seduto vicino si piega all’indietro. Cercano la soluzione nella domanda e in discussioni esteriori.
Giuda con la borsa è seduto davanti a destra e sembra chinarsi leggermente. La sua testa è bassa e lo vediamo da dietro e un po’ di profilo. Il coltello sul suo piatto è rivolto con la punta verso il Cristo.
La composizione è ricercata fin nei dettagli. Dürer raggiunge qui un culmine nella raffigurazione dell’Ultima Cena.
Con la spalla leggermente alzata il Cristo in un certo senso esclude Giovanni che sta seduto vicino a lui dal gravoso sapere che può condividere solo con uno. Quel che è ancora taciuto si manifesta nei tre momenti dell’agnello, del discepolo, del Cristo. Questa triade è centro e nucleo di quanto esprime l’immagine. Sopra vi è lo sguardo della notte attraverso il tondo nel muro, la notte che Giuda trova quando esce, dopo aver preso il boccone. “Ed era notte” è detto espressamente nel vangelo. La profondità illuminata del muro sta come una luna rovesciata sopra il nero. Nessuna falce di luna del Graal che porti delicatamente nella coppa il corpo di luce. Qui nello spazio, la notte non ha ancora il potere. Il triplice raggio intorno al capo del Cristo risponde all’oscura minaccia con una crescente luce spirituale. Inizia però già l’estraniarsi del Figlio di Dio dal Figliuol dell’uomo: la soglia della corporeità inizia a spezzarsi; non molto tempo dopo si separerà dal Figliuol dell’uomo al Monte degli Ulivi, “il giovinetto dalla veste bianca”.
Non si sa da dove venga la luce che riempie lo spazio. Le finestre non possono essere una spiegazione, poiché è notte. Non si vedono candele. Nell’arte del sud non si pone la questione. In Leonardo è ancora giorno dietro alla finestra. Qui, in particolare, si tratta di uno spazio interno. Dietro i discepoli vi sono spesse mura. In questa scena l’uomo può essere partecipe solo penetrando nella propria intima vita interiore. Ciò che un tempo era esteriore va cercato interiormente. Questo esige e comporta anche una diversa qualità.
E il gruppo formato dal Cristo con il discepolo che Gesù amava è l’intima interiorità. In quadri antecedenti si conosceva ancora l’antica tradizione, probabilmente più aderente alla scena storica, dove le figure erano sedute e il discepolo eletto era vicino al Cristo. Nel centro Europa questo elemento non compare, ma questo non è decisivo. La disposizione del gruppo centrale, in accordo con le figure che siedono intorno al tavolo, è una sorta di intensificazione verso l’interiorizzazione. Nei quadri tedeschi si rinuncia anche alla lunga tavola orizzontale del sud e si concentra la scena, la si raccoglie, facendo emergere l’interiorità. Dürer ci mostra così un culmine classico, classico nel senso del centro Europa.
 Hella Krause-Zimmer, da “Offenbare Geheimnisse der christlichen Jahresfeste“, Freies Geistesleben 2003
(Traduzione di Stefano Pederiva)

Milano, 9 aprile 2020
Fondazione Antroposofica Milanese



domenica 5 aprile 2020

Domenica delle Palme: L’ingresso di Gesù Cristo a Gerusalemme

Anonimo del XII secolo, L'ingresso di Cristo in Gerusalemme, mosaico della cupola dell'Ascensione, Basilica di San Marco, Venezia
Il Cristo sta seduto su di un asinello bianco davanti allo sfondo rilucente d’oro del mosaico di San Marco a Venezia. Alcuni discepoli gli hanno messo come sella i loro mantelli. Uomini che escono dalle porte di Gerusalemme distendono le loro vesti sulla strada perché l’asino con i suoi zoccoli vi passi sopra. Quando riprenderanno quegli abiti sapranno: vi è passato sopra il Messia su un puledro d’asino, i vestiti sono santificati. Saranno sacri anche i loro sentimenti o faranno parte di quelli che pochi giorni dopo grideranno: “Crocifiggetelo”?
Nelle antiche cerimonie di culto, sia nei misteri pagani, sia nei culti massonici o nei riti di vestizione della chiesa cattolica, per esempio nella nomina di un cardinale, i capi di vestiario hanno determinati significati. Come Rudolf Steiner disse in alcune occasioni, la camicia bianca rappresenta il corpo eterico, la veste colorata il corpo astrale, il mantello l’io.
In questo quadro vi compaiono tutti e tre: in bianco vediamo coloro che hanno deposto i loro abiti, restando con la sola veste; gli indumenti stesi per terra sono invece colorati e con diversi motivi decorativi. I mantelli dei discepoli gettati sull’asinello sono monocromatici come quello del Cristo. Solo questi mantelli entrano in contatto con il Cristo. La sua veste (immagine del corpo astrale) è un puro flusso d’oro; nei misteri egizi era stato coniato per questa realtà il concetto di “vello d’oro” quale meta dello sviluppo animico dell’uomo.
Osservando questo quadro, ci colpisce la solitudine intorno al Cristo, il suo volto segnato dai tratti
tragici della serietà consapevole. Un sapere che nessuno condivide con lui. Nes­suno vuole comprendere Colui che prevede la rovina di Gerusa­lemme. Procede così sull’asi­nello davanti al rilucere dell’oro, portando solitario il peso della preveggenza. Parla della propria morte, parla del Figliuol dell’uomo che verrà innalzato, ma la gente gli chiede: “Chi è questo Figliuol dell’uomo?” E perché deve essere innalzato?  “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno.” Ingenuità e incompren­sione lo circondano.
L’artista non lo ritrae come se guardasse quegli uomini, ma con lo sguardo veggente pieno di concentrazione mentre, cavalcando, guarda in avanti e al contempo verso l’alto, come se ascoltasse e apprendesse da lì quello che sa e che annuncia. “Allora venne una voce dal cielo: E l’ho glorificato”. Una parte della folla la sente come un tuono, un'altra parte dice: “Un angelo gli ha parlato”. Lui, però, parla del Padre, che ha glorificato il suo nome. “Non Per me, ma per voi è venuta questa voce”. Per amore di coloro che assistono e che nel migliore dei casi percepiscono la voce di un angelo. Per gli altri tutto rimane esteriore e anonimo. Lo stesso evento viene sperimentato in tre modi diversi: nel “tuono” non si coglie Colui che parla, con “l’angelo” il messaggio resta oscuro, solo col “Padre” la voce diviene persona e viene compreso il contenuto del discorso.
La concentrazione rivolta al divino e la silenziosa sopportazione carica di sofferenza vissuta, distinguono qui in modo grandioso il Cristo da tutte le altre figure. Nelle spalle leggermente abbassate vi è scioltezza, il collo un po’ teso in avanti e lo sguardo rivolto in su mostrano dedizione e attenzione. La bocca è chiusa: Egli vive tutto dedito al dialogo celeste.
L’asino sembra partecipare all’importanza del momento. Le grandi orecchie sono ritte e attente, il lungo collo è teso in avanti: l’occhio viene quasi oscurato dalla serietà, preso da spavento. Coscienza della tragicità e della dignità sembra penetrare fin negli zoccoli che calpestano a ogni passo le vesti distese. Questo asino è il rappresentante di ogni creatura della terra, coinvolta negli eventi sacri. Il fatto che fosse bianco non è detto nella Bibbia, ma molti artisti lo sperimentarono così, l’animale eletto per portare il Signore.
Hella Krause-Zimmer, da Offenbare Geheimnisse der christlichen Jahresfeste, Freies Geistesleben 2003
(Traduzione di Stefano Pederiva)

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