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giovedì 29 febbraio 2024

Marzo, che mette nuvole a soqquadro - di Arturo Onofri



Marzo, che mette nuvole a soqquadro
e le ammontagna in alpi di broccati,
per poi disfarle in mammole sui prati,
accende all’improvviso, come un ladro,
un’occhiata di sole,
che abbaglia acque e viole.



Con in bocca un fil d’erba primaticcio,
marzo è un fanciullo in ozio, a cavalcioni
sul vento che separa due stagioni;
e, zufolando fa, per suo capriccio,
con strafottenti audacie,
il tempo che gli piace.


Stanotte, fra i suoi riccioli, spioventi
sul mio sonno a rovesci e a trilli alati,
il flauto di silenzio dei suoi fiati
vegetali svegliava azzurri e argenti
nel mio sognarlo, e fuori
ne son sbocciati fiori.

martedì 3 novembre 2020

Autunno - di Caesar Flaischlen

Ora sono arrivati anche i ragni!
Silenziosi, piano piano,
come di notte
sono arrivati su ogni siepe
ad avvolgere e a intessere
quel che ancora fiorisce...
E le farfalle cadono,
stanche di volare, in quelle reti...


Sopra di loro torna
la nebbia con i suoi veli...
Piano piano, come i ragni,
di notte... non si sa da dove...
E le foglie cominciano a cadere.

martedì 5 novembre 2019

Novembre - di Fabio Tombari

  Novembre, quando l’autunno funziona da inverno, e nelle sere di nebbia gli uomini sembrano fatti della materia dei sogni: tanto i vivi che i morti, i cosiddetti morti.
Gli antichi l’avevano dedicato a Diana, gli astrologhi alla Luna.
Trae il suo nome dal calendario di Romolo che lo faceva a contare da Marzo, il nono mese, e dai nove cieli da cui sembra piovuto, annegato, infradiciato. Cesare lo arricchì di un giorno che Augusto ritolse; Dante lo cita in Purgatorio.
Grandi uccelli di mare dormono alti col becco al vento, mentre Pomposa batte l’Ave; e i bambini che per la strada di Aquileia, lungo le valli tornano da scuola, tremano di paura, tanto hanno grandi gli occhi.

I fiumi gonfiano, e a stare alla tina sul Po c’è pericolo, se si disancora la botte, di finir per l’Amarissimo soli col cane.
Il colore più diffuso è il grigio, il segno è l’Arciere. – La statua di questo mese, dice il Tanara, sarà vestita di fronde secche coronata di rami: in una mano un canestro di rape e d’ogni radice commestibile, al piede il Sagittario sopra una testa di porco selvatico in malvagia e un’oca grassa con scorze di melangole fra fagiani e lucci carpionati.

In città, dove le luci si riflettono sull’asfalto e passano donne dentro gli orsi delle pellicce, predominano le tinte brune e malva, come tinte di gran moda. È il mese in cui si riattivano i salotti, le relazioni d’affari, la stagione lirica; in cui l’ammiratore della ballerina, che altra volta attendeva in anticamera con l’omaggio delle orchidee, è introdotto in sala da pranzo con un mazzo di starne e di funghi.

Ma il Novembre esige solitudine. Chi non può star solo si smarrisce. Occorre cercarsi, ritrovarsi in tutte le cose.
Conveniente calafatare la barca, ristoppare gli infissi, spaccar la legna, raccoglier ghiande, riadattare i cappotti, rincalzare i carciofi, mandare i porci per le vigne.
Mese fosco, abbondante di selvatici di vongole di colombacci di fumi d’arrosto, di fiere fisse e mobili; carico di verze di pere bergamotte, di mele appie e cotogne, grave di infreddagioni, è il tempo dei sogni: quando anche il mare, assopito dopo la bora, dorme e russa tranquillo, cullando i suoi mostri.
Tutto è nebbia all’intorno: il giorno che si fa strada a stento in un labirinto, intravede le nubi ammassarsi, né sai dove l’orizzonte finisca e il cielo cominci.
Che v’è di là, oltre il confuso dei sogni? Larve, illusioni, ombre vane. E poi?
Il mondo dei sogni è tale perché inconsistente o perché opaco? Cos’è che ci vela? L’Helgoland, la terra dei santi?

Ventoso, piovoso, stravolto da bore e tramontane, sorvolato da falchi e gabbiani, da corvi e da ombrelli; è il mese in cui si mette mano al vino nuovo, si riaccende il caminetto e tornano in uso il biliardo la pipa il tresette. E pei piccini il giuoco dell’oca.
Se hai un mare a portata di mano, tenderai dei gabbioni a rete lungo i banchi di sabbia, dove l’acqua è meno profonda. Li ritrarrai di sera carichi di anguille.
Uccidere le anguille, dicono i saggi, non è peccato, poiché è tale pesce questo che se non l’uccidi presto, muore di consunzione.
Hanno un kraal nascosto le anguille, come gli elefanti e gli zingari e vanno a morire distante.

venerdì 6 marzo 2015

Marzo - di Fabio Tombari


 Presso gli antichi era il primo, e primo difatti lo è ancora, come il mese in cui la natura rinasce. Se il mondo ha avuto una origine questa non può essere avvenuta che in marzo, durante l’equinozio di primavera.

È il tempo in cui maggiormente si schiudono le uova degli uccelli e dei pesci, sì che la massaia non fa in tempo a porre le uova sotto la chioccia.

Già la mattina al mercato appaiono i primi ravanelli, i primi carciofi, le prime insalatine di campo. E la pescheria riluce di tutti i tesori. Collegati col calcolo delle maree, coi fulgori del cosmo, hanno un bel sigillarsi i crostacei e le ostriche con cerniere e chiavacci. Tutti sono costretti ad aprirsi a donare ad accogliere, anche i più stretti e segreti, anche i più tristi e i più avari. Pervasi da oscura notte, oltre le zone della tristezza, anche i mostri abissali sono costretti a salire. E la foca che uscita dal fondo annusa d’intorno il tanfo oleoso dei consimili, sente nel mare che si abbatte il proprio peso, e s’abbandona alla Luna.

Intitolato a Marte, secondo gli astrologhi, sottoposto alle influenze del pianeta caldo, patrono delle querce, dei noci, del frassino; governatore di tutte le cose salate, dalle acciughe alle lacrime, dalle patatine fritte agli oceani, è il mese dei venti.

Sono come gli eroi di Omero i venti di Marzo, come gli eroi greci.
Violenti e scontrosi fra loro, ricchi di parenti, muovono alla pugna uno per volta dominando il campo nemico. Ecco Agamennone, sire di genti, il vento del Nord, fratello di Aquilone e di Bora, cugino del Maestrale. Muove dal Polo, freddissimo, nemico dei fiori, delle piogge, di ogni corruzione pestifera. Rischiara l’aria, uccide le api, gela i laghi, le montagne. Sorvola la Scandinavia, scende dal Baltico sulla Germania, sfiora le viti e i boschi del Reno, sormonta la Baviera, scavalca le Alpi. È allora che conviene salare le carni, sì che i norcini consigliano addirittura di esporle a settentrione.

venerdì 6 febbraio 2015

Febbraio - di Fabio Tombari

Quando nevica nella foresta di Shakespeare, mentre scola dai prosciutti il sale di Rabelais. Allora che Dante s’incendia.
E fra il rovaio di fuori, la cucina pesante ed il fuoco, Febbraio ci trasporta nel mondo dei tragici.
Più nessuna mediocrità, nessuna frivolezza. Non è permesso fare dello spirito di fronte a una quercia nuda e stecchita come una vecchia del Dürer o al cospetto del proprio maiale  che va alla morte.
A quali tregende assiste di notte la campagna spaurita? Non è forse con un colpo di tramontana come questa che Michelangelo ha mosso il Giudizio Universale?
Se il pensiero dell’inferno d’estate, sdraiati su una spiaggia elegante, ci può far ridere, ora ci turba come l’immagine dell’estrema vecchiezza e della terribilità divina che traspare da ogni cosa. Perfino in cucina l’ardore di Kren Barbaforte riporta un’arsura di bolgia.
È il mese in cui muoiono Buonarroti, Cellini, Giulio II, Riccardo Wagner; il mese dei miei morti: mio padre di cent’anni, mio figlio in fasce, Maria prima dell’alba.
Inutilmente il Carnevale trarrà ancora per le strade la farsa di un’età dissepolta, trascinerà l’onta della parodia umana. Dietro a ogni bautta può celarsi un Doge, sotto le bubbole un paltoniere; ogni grassezza nasconde i sette peccati di Falstaff, ogni smorfia tradisce la maniera di Goya.
A Parigi costuma ancora la calata de la Courtille come ai tempi di Villon, come ai tempi di Sparta il corteggio degli Iloti ubriachi. A che pro?
Dopo il carnevale ogni maschera penderà dal chiodo dolorosa come la maschera di Beethoven.
Per i maomettani Febbraio è il mese della rivelazione del Corano, della scissione della Luna; per i giapponesi è il mese del cambio dei vestiti; per i veronesi, più solidi, il mese  degli gnocchi.
Col giorno delle Ceneri la Chiesa si veste da penitente e il sacerdote indossa il color viola. 
È il grande venerdì degli antichi divieti, la vigilia più stretta; quando un pugno di ceci riacquista quel valore che aveva nel campo sotto la volta di stelle.
Gli stessi re di corona lo mettevano a bagno la sera con una presa di cenere a renderlo cocivo. E la mattina la regina, appena l’alba, lo poneva a bollire in pignatta di coccio con olio aglio e rosmarino. Poi, con la corona in testa, si metteva alla madia a intrider farina e uova, per farne i quadrelli da buttar giù col sale grosso all’ultimo bollore.
Così a me piacciono i re; perché la sovranità, come la grande arte, s’avvera soltanto nella semplicità più virtuosa. E a patto di render regale ciò che tocca.

mercoledì 15 gennaio 2014

Gennaio - di Fabio Tombari


La Terra che quasi sonnambula vaga per l’etere, sembra destarsi a colpi di champagne. La vigilia, anzi che con abluzioni e digiuni, si conclude in bagordi; e Capodanno che dovrebbe aprirci ci chiude. Grevi, assonnati, pessimisti.
L’anno nuovo comincia da zero, da sotto zero. La stessa campagna d’intorno mostra la secchezza d’uno scheletro, e nei cristalli scricchiola la morte più gelida.Principiare con l’Aprile come gli antichi è facile; è adesso che è difficile. Finite le feste, finiti i quattrini.
E allora, sotto con la nuova valuta! quella delle origini. Non è l’oro dell’oriente che ha da venire a incarnarsi nelle erbe, nei fiori?
Sono le ultime delle Sacre Notti, e già Olaf Asteson, nel Canto del Sogno, cavalca verso la tredicesima.
Ma è presto. La luce che nel solstizio si era fermata, torna a salire; fuori nel cielo come dentro le piante: a salire coi sali.
Così la terra si desta e quel che intravede nel dormiveglia non è più la Luna, è il Sole. E incredibile a dirsi, ora soltanto lo vede. Radioso, dentro una grotta...
Contemplata dai pastori e dai magi, come cupola di gemme voltata sul bambino, Epifania è visione dall'alto, e pei piccini diviene la Befana.
Ma è presto, troppo presto ancora. Non solo per le piante e le gemme, perfino pei fiori di neve. Le rune impresse nelle pietre come sulle spade, tengono conto solo delle veglie.
E inutilmente i bambini schiacciano il nasetto contro i vetri, mentre giovanotti e signorine danno una mano d’olio agli sci: San Silvestro partito ai dodici tocchi con le amarezze e i rimpianti, ha sì lasciato in terra una pagina bianca, ma di brina.

Dunque la neve deve venire. Come potrebbe mancare nei giorni della sua festa?
Non c’è tempo da perdere: è ora di dar l’unto agli scarponi, di tenere i cani affamati al guinzaglio contro lupi e orsi. Un tempaccio scuro che stritola le ossa. E la neve viene.

martedì 3 dicembre 2013

Dicembre - di Fabio Tombari


Per un solo fiore che insista sul muro d’un giardino, il freddo indugia sui monti, la bora s’attarda nelle grotte dell’Istria.
Troppe rose sparse qua e là sui vecchi muri di cinta, troppi gerani ancora sul Canal Grande. lungo la riviera, molti tavolinetti fuori dei caffè, tutti i Luna-Park in piedi fanno ancora sfoggio di luce, pochi colpi di tosse in chiesa alla Messa cantata. Roma ha tutti i suoi tramonti d’oro.

Chopin domina sempre dalle cinque alle sette di sera e dopo cena Puccini e Massenet.
L’arte è ancora quella di mezza stagione: elegante, un po’ leggera, ma non troppo. È presto ancora per il rovaio di Wagner e di Beethoven, per i temporalacci del Rigoletto o del Barbiere, per il vino brulé di Rabelais e d’Omero, per il fuoco di Dante. I geni richiedono la stagione rigida, un cielo più cupo, il foco di legna più grosso; come tutti quei problemi proposti dal freddo intenso, dalle notti tempestose, dalle piogge dirotte, come l’alchimia, le castagne arrosto, gli enigmi.
Vanno ascoltati, letti e meditati di sera, nelle lunghe veglie grige e pesanti, quando le città odorano di oceani sporchi di fango.
E le grandi epopee? Allorché il dottor Lönroth chiamò a sé i più vecchi contadini, quelli non ricordavano. Stavano lì a cavalcioni delle scranne e non riuscivano né a sovvenire né a mentovare.
Ma ecco che battendo i piedi dal freddo, presero a dondolar sugli zoccoli, e con la cadenza, col ritmo a una a una su per le membra fino al cuore e alla mente, il rimembrare, il ricordare e rammentare via via di tutte le lasse.
Così la saga, l’epopea dei Finni, il Kalevala venne rievocato e trascritto per il futuro.
Con le sue reminiscenze più o meno antiche ed eroiche, con l’ultime battute di caccia e le prime bufere, l’inverno ci vuol favolosi.
Il tartufaro che nelle prime ore del mattino s’inurba col sacco in spalla cantando sotto le finestre ancora chiuse la bianchezza della trifola, si vede seguire - potenza della bella voce - da una falange di cani randagi accorsi a lui da tutte le strade.
Tremanti pel gelo notturno, l’ascoltano estasiati col naso in aria.
Il tempo delle fiabe investe ogni cosa.
Le verze che in crocchio, brinate, indugiano ancora nell'orto coi cappucci e coi broccoli, aspirano a entrare in cucina a maritarsi coi selvatici.
Lepri, pivieri e cignali non attendon che loro. E starne e beccacce e pernici. Fagiani in addobbo d’aceto intercalati con qualche rombo e anguilla marinata; olive grosse di Ascoli, zuppe di polenta e di pesce: fegatelli di maiale glorificati col lauro. Tutte le morti più sapide e mature dell’autunno morente.
Il buon Sole d’un tempo, che non ha più forza di riscaldare i muri, né di segnalare le fatiche umane col sudore della fronte, dà ancora qualche effimero guizzo qua e là e sembra spegnersi inutile avanti il tramonto con qualche anticipo sul proprio destino, come un suicida.
Tutti i maiali vigliaccamente scannati, il pesce rapito forivia con le ovaie ancora gonfie, un po’ di neve, poca, come quel po’ di farina che Re Marco sparse fra il letto di Tristano e d’Isotta, per ottener la prova dell’adulterio, e su cui l’umanità lascia la stessa orma d’una selvaggina votata alla morte.
Di sera, sotto il Capricorno, è ancora il cacciatore che torna fra le nebbie come in un’acquaforte, curvo col peso delle piccole vittime.
Poi l’ultima rosa cadrà, e sarà l’inverno.

giovedì 18 luglio 2013

Nebbia - di Giovanni Pascoli


Nascondi le cose lontane, 
tu nebbia impalpabile e scialba, 
tu fumo che ancora rampolli, 
su l'alba, 
da' lampi notturni e da' crolli 
d'aeree frane! 

Nascondi le cose lontane, 
nascondimi quello ch'è morto! 
Ch'io veda soltanto la siepe 
dell'orto, 
la mura ch'ha piene le crepe 
di valeriane. 

Nascondi le cose lontane: 
le cose son ebbre di pianto! 

Ch'io veda i due peschi, i due meli, 
soltanto, 
che dànno i soavi lor mieli 
pel nero mio pane. 

Nascondi le cose lontane 
che vogliono ch'ami e che vada! 

Ch'io veda là solo quel bianco 
di strada, 
che un giorno ho da fare tra stanco 
don don di campane... 

Nascondi le cose lontane, 
nascondile, involale al volo 
del cuore! Ch'io veda il cipresso 
là, solo, 

qui, solo quest'orto, cui presso 
sonnecchia il mio cane.

martedì 29 gennaio 2013

In me il tuo ricordo - di Vittorio Sereni


In me il tuo ricordo è un fruscìo
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l'altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull'estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d'anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.

da Frontiera

lunedì 23 aprile 2012

Paesaggio - di Massimo Bontempelli

In un'età lunare la campagna deserta a perdita d'occhio ha germinato
una boscaglia nana fitta di luci d'acciaio senza rami né foglie
grigi filari intricati viticci di filo contorto - vi sbatte le ali morendo
qualche palla sfinita - s'affloscia
sopra i ciuffi molli ove tra sasso e sasso
vegliano disperatamente le violette
pallide senza profumo con un rancore muto contro uomini e dei.
Bisbigliano al vento su verso gli arbusti di ferro i grovigli strambi
che fioriscono a mille a mille le spine. Verrà un'estate di rose?
Chiedi il futuro domani al cerchio lontano 
delle montagne violastre che leticano di fumi ed echi tra loro.
S'aprono sperdendosi i fumi vaniscono - sul turchino profondo
un dracken osceno dondola governa il cielo e la terra.

Fotografia di Mariaelisabetta: Miracolo a Milano (sessant'anni dopo)

mercoledì 11 aprile 2012

Prati di tenerezza - di Arturo Onofri

Prati di tenerezza,
ove i gialli boccheggiano dal buio
Dall’alto i vetri diafani del cielo
Ricovano liddentro uova novizie
Di vecchi credi e d’ali,
che s’apriranno, senza raccoltarlo,
in stagioni e primizie.


Ma quando mi vorrai non ti vorrò,
o riluttante soffio degli aprili,
che inducesti a linguaggio i desideri
tuoi nell’arcano scheletro ch’io porto.
Ti sottrai, per la gioia di covarti
Ossa sempre ambulanti, in quanto umane;
ma se vorrai far ressa di profumi
alle serrate glandole del sole
per indurle a sbocciare ali, carezze,
solfe azzurre e capricci di regine,
troverai solo un no nero d’acciaio,
nel mio tormento gaio.



Riprodiga, se vuoi, voli e bisbigli
E affrettate verdure dappertutto,
a smorzare in sordine di tappeti
le tue fughe affannose!
Ma cristalli di risa nasceranno
Dalle fontane, al suono del tuo passo:
friabili ombre sotto i gialli appiombi
delle impudiche estività, che spasimano
di funerari amplessi
in mille mila sessi:
in tanti innumerevoli me stessi.

giovedì 23 febbraio 2012

Stazione solitaria - di Maurice Carême

S’accendono i lampioni.
Un ultimo fringuello canta.
La stazione è struggente.
In questa sera di settembre
resta così sola
in disparte dalle case,
così sola a guardare
la stella del Vespero
che piange all’orizzonte
tra due vecchi tigli.



A volte un viaggiatore
si ferma sulla banchina,
ma così stanco, così distratto,
che non vede i lampioni,
né il fringuello che canta,
neppure la stella che piange
in questa sera di settembre.
E la città lo inghiotte,
lugubre come il vento
che disperde le foglie
sulla stazione struggente
e più sola di prima.



Le fotografie sono di Alice

mercoledì 22 febbraio 2012

Ballata della vita esteriore - di Hugo von Hofmannsthal


E crescono bambini dai profondi occhi
che nulla sanno, crescono e muoiono,
e tutti gli uomini percorrono la loro via.

E dolci divengono i frutti acerbi
e di notte cadono a terra come morti uccelli
e per poco vi giacciono prima di marcire. 

E sempre soffia il vento, e sempre di nuovo
ascoltiamo e diciamo tante parole,
e proviamo gioia e torpore nelle membra. 

E strade corrono attraverso i campi, e luoghi 
vi sono, qui e là, pieni di luci, d’alberi, di stagni,
ora minacciosi, ora spettralmente aridi...



Perché esistono? e mai uguali gli uni
agli altri? e sono di numero infinito?
Che cosa alterna il riso, il pianto, il pallore?

A che ci giova tutto questo e questi giochi?
A noi che siamo adulti ed eternamente soli
e, pur vagando, cerchiamo ancora una meta. 

Che giova aver visto così tante cose?
Eppure dice molto chi dice “sera”,
parola che un senso profondo e dolore stilla

come greve miele dal cavo d’un alveare.


Otto Runge Il mattino - L'ora della lezione dell'usignolo

sabato 28 gennaio 2012

Il neige sur Lièges - di Jacques Brel



e per cadere su Liegi la neve mette i guanti 
Neve, neve su Liegi
Falce nera della Mosa sulla fronte d’un clown bianco
È spezzato il grido
delle ore e degli uccelli
dei bambini in cerchio 
e del nero e del grigio
Neve, neve su Liegi
che il fiume attraversa senza rumore



Neve, neve su Liegi
e tanto turbina la neve tra il cielo e Liegi
che non si sa più se nevica su Liegi
o se è Liegi che nevica verso il cielo
E la neve sposa
gli amanti appena conosciuti
gli amanti che passeggiano
sulla piazza imbiancata
Neve, neve su Liegi
che il fiume trasporta senza rumore



Stasera, stasera nevica sui miei sogni e su Liegi
che il fiume trafigge senza rumore

venerdì 27 gennaio 2012

Nevicata - di Christian Morgenstern


Restare  in silenzio disteso e pensare a te,
mentre legioni di fiori bianchi
il mio io oscuro sommergono sotto la neve!



Perché non morire così! Un giorno, quando ogni cosa
sarà conclusa in noi, attorno a noi,
il capo in grembo alle bianche nuvole cadute.






da Christian Morgenstern Per molti sentieri

mercoledì 16 novembre 2011

Blake e Nerval - di Henri Lemaitre


William Blake, morto nel 1827 quando Nerval era poco più che adolescente, fu totalmente ignorato nella Francia del Romanticismo e per un poeta francese di quel tempo sarebbe stato impossibile conoscerne le opere. La comunione fra Blake e Nerval nasce dunque dalla loro appartenenza a un comune esoterismo, dal loro comune riferimento a Swedenborg e alla mitologia orientale: così non ci può sorprendere trovare in Aurélia (Memorabilia) l’immagine-simbolo del “Serpente che circonda il Mondo”, che riveste un ruolo così importante nei Libri profetici di Blake e nelle sue visioni incise o dipinte. Allo stesso modo la fine di Aurélia ci propone un’interpretazione del Cristo come strumento di una redenzione universale degli esseri e delle cose, e dell’Inferno stesso (il “fiore sulfureo” non diviene infatti il “fiore splendente del sole”?) molto vicina al ruolo giocato in Blake dall’Agnello di Dio, tanto che, se non si fosse sicuri che Nerval non poté conoscere Blake, si parlerebbe sicuramente di un’influenza. Tutto ciò si spiega, come già detto, attraverso fonti esoteriche comuni, ma anche per una fraternità d’animo più profonda ancora. Il ruolo mistico della Donna, che Blake chiama “Emanazione”, opposta allo “Spettro”, è lo stesso nei due poeti e, nell’uno come nell’altro, la scomparsa dell’Emanazione femminile è il segno della dannazione: in questo senso non vi è nulla di più blakiano della pagina di Aurélia (II.2) dove la scomparsa della donna trasforma il mondo in un deserto, la cui descrizione coincide esattamente con i paesaggi che riempiono i poemi e le incisioni di Blake. Nerval e Blake sono tormentati dalla medesima ossessione: si attribuisce generalmente all’influenza di Jean Paul Richter l’immagine del “Sole nero” che opprime El Desdichado e che ritroviamo in molti altri passaggi dell’opera nervaliana; questa stessa immagine appare in Blake con il medesimo significato in molti brani, come ad esempio nel Primo libro di Urizen (1794):

...e i Figli di Eternità
sulle rive di oceaniche immensità contemplavano,
come un Sole nero e un cuore d’uomo
che batte al ritmo della propria lotta,
l’immensa apparizione del mondo di Urizen.

venerdì 11 novembre 2011

El Desdichado - di Gerard de Nerval


Io sono il tenebroso - il vedovo - l'inconsolato,
il Principe d'Aquitania la cui torre è caduta;
la mia sola stella è morta - e il mio liuto adorno d'astri
porta inciso il Sole nero della Melancolia.

Nella notte della tomba, tu che m'hai consolato,
Posillipo rendimi e il mare d'Italia,
il fiore che tanto piaceva al mio cuore desolato
e la pergola dove la vite alla rosa s'allea.


Sono Amore o Febo?... Lusignan o Biron?
Sulla mia fronte ancora è rosso il bacio della regina;
ho sognato nella grotta dove nuota la sirena.

Due volte da vincitore traversai l'Acheronte, 
modulando alterni sulla lira d'Orfeo
i sospiri della santa e i gridi della fata.


I quadri di Odilon Redon: Pegaso - Ophelia

mercoledì 26 ottobre 2011

Lezione sull'ombra - di John Donne


Fermati! Ti terrò, amore, una lezione
di filosofia d'amore.
Passeggiavamo, in queste tre ore, e
con noi venivano due ombre
che noi stessi avevamo generato.
Ma ora il sole è a picco sul nostro capo
e calpestiamo quelle ombre,
ogni cosa è trasformata
in coraggiosa luminosità.
Mentre cresceva il nostro amore bambino,
finzioni e ombre fluivano da noi,
dai nostri affanni; ma adesso non è più così.

Non arriva al punto più alto
un amore che teme d'esser visto.

Se non lo fermiamo a questo mezzogiorno,
ombre creeremo nell'altro verso,
e mentre le prime dovevan rendere ciechi gli altri,
queste che si formeranno, agiranno su di noi,
accecando i nostri occhi.
Se il nostro amore impallidisce, se declina al tramonto,
tu a me le tue azioni, mentendo, nasconderai,
io a te, le mie nasconderò.
Le ombre del mattino rimpiccioliscono,
ma queste crescono per tutto il giorno.
Oh, quant'è breve il giorno dell'amore, se l'amore tramonta.

Amore è luce crescente, o piena e costante,
e il suo primo minuto dopo mezzogiorno è notte.


Le fotografie sono tratte dall'album Paris, rue de Tournage di Cris Thellung

martedì 4 ottobre 2011

Ottobre – di Fabio Tombari

Il pittore specializzato in paesaggi si vede costretto in questo mese a cambiare per intero la sua tavolozza. Simile al musicista che al tramonto dell’eroe, per meglio aderire alla maturità del dramma deve trasportare il motivo del violino in chiave di basso per il violoncello, il pittore cangia il turchino col grigio, il verde col terra di Siena, il giallo oro col sangue di bue.
Il fatto è che la natura stessa, ricorrendo il colmo della venagione, si trasforma in preda. Come del resto le donne.
Non più l’ocra l’indaco il carminio dei pappagalli, ma il color talpa, il fulvo, il rossigno delle pernici, dei tassi e dei cervi, anche nella moda muliebre. Per un processo di mimetismo più in grande, l’Europa tutt’intera assume i colori della sua selvaggina.

È il tempo delle sorbe; e il rigogolo che per i fichi si era vestito d’oro, torna a mutarsi di verde.
Sono le mattine care ai primi pittori olandesi, i pomeriggi dei paesaggisti francesi dell’ottocento; quando il vero poeta esce a caccia senza fucile, così per ammazzare il tempo.
Non ha più idee. Ma il cane lo raggiunge, lo sorpassa, ritorna; cerca, punta, si agita. Poi in gran furia comincia a scavare, disseppellire qualcosa.
Sorpreso, perplesso, il poeta lo segue. Una tana, un tesoro?
No: un piccolo grumo indurito, quasi un cervello coi lobi e le vene.
Lo coglie, lo soppesa, lo fiuta: bulbo? no; radice? frutto? nemmeno; né durone, né ceppo, né sasso.
È come un groppo, un ganglio, e odora di viole di aglio.
Puzza, profuma? Ecco il problema. Sia quel che sia! L’idea che mancava è trovata: e a grandi passi concitati corre in casa trionfante d’aver scovato un tartufo.

domenica 11 settembre 2011

Settembre - di Fabio Tombari

I fiumi, la prima bora, le strade. Strade che costeggiano la marina e si smarriscono qua e là lungo i tigli e i tamerici umidi dei viali, sotto le prime ville chiuse e i giardini lambiti dalle onde; strade lunghe, deserte, sorvolate in alto da grandi uccelli di mare nel vento; strade caliginose battute dalla pioggia; quando le signorine di provincia escono coi gomitoli di lana e coi quaderni per recarsi da un’amica vicina a fare la maglia o a riprendere lezioni di piano; mentre nei sobborghi o lungo le spiagge, le passeggiate dei seminaristi somigliano ad accompagni funebri senza feretro.

È questo il mese in cui ogni distanza dà il senso della nostalgia, quando l’orizzonte si perde dentro chiusi orizzonti, e l’estate ritrova finalmente nella morte la propria nobiltà.

I fiumi traboccati via a fuga dalle doghe della montagna cominciano a invadere le arcate laterali dei ponti. Passano sulle acque sporche le spoglie d’una stagione compiuta, gli ultimi avanzi di un’età fradicia che la prima mareggiata rigetterà sulle coste insudiciando le spiagge.

Sono belle in settembre le grosse burrasche, gli scuri di riva visti dal largo, per i quali tutta la baia s’imbruna sotto la minaccia dell’uragano, mentre le ondate irrompono fin nei capanni, e i maschietti che han letto Salgari non vogliono più uscire.

È così bello col capanno che minaccia un naufragio in piena regola e le tavole che scricchiolano e la spuma che monta. Questa è la nave maledetta e loro i pirati della Malesia.

“Corpo di mille bombarde!” grida il più piccino, “Venderò cara la mia vecchia carcassa”.
Le bambine invece tornano alla spiaggia con le calze e le scarpette, e la bambola cui han messo la cuffia perché fa fresco. Vengono a salutare le amiche e gli amici che partono; qualcuna ha il cuoricino gonfio. Parte anche Giorgio proprietario del canotto di gomma. È mezz’ora che stanno lì a salutarlo, tutte intorno a lui; e mentre Giorgio se ne va felice, le bambine si metterebbero a piangere se non avessero ritegno una dell’altra.

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