venerdì 6 febbraio 2015

Febbraio - di Fabio Tombari

Quando nevica nella foresta di Shakespeare, mentre scola dai prosciutti il sale di Rabelais. Allora che Dante s’incendia.
E fra il rovaio di fuori, la cucina pesante ed il fuoco, Febbraio ci trasporta nel mondo dei tragici.
Più nessuna mediocrità, nessuna frivolezza. Non è permesso fare dello spirito di fronte a una quercia nuda e stecchita come una vecchia del Dürer o al cospetto del proprio maiale  che va alla morte.
A quali tregende assiste di notte la campagna spaurita? Non è forse con un colpo di tramontana come questa che Michelangelo ha mosso il Giudizio Universale?
Se il pensiero dell’inferno d’estate, sdraiati su una spiaggia elegante, ci può far ridere, ora ci turba come l’immagine dell’estrema vecchiezza e della terribilità divina che traspare da ogni cosa. Perfino in cucina l’ardore di Kren Barbaforte riporta un’arsura di bolgia.
È il mese in cui muoiono Buonarroti, Cellini, Giulio II, Riccardo Wagner; il mese dei miei morti: mio padre di cent’anni, mio figlio in fasce, Maria prima dell’alba.
Inutilmente il Carnevale trarrà ancora per le strade la farsa di un’età dissepolta, trascinerà l’onta della parodia umana. Dietro a ogni bautta può celarsi un Doge, sotto le bubbole un paltoniere; ogni grassezza nasconde i sette peccati di Falstaff, ogni smorfia tradisce la maniera di Goya.
A Parigi costuma ancora la calata de la Courtille come ai tempi di Villon, come ai tempi di Sparta il corteggio degli Iloti ubriachi. A che pro?
Dopo il carnevale ogni maschera penderà dal chiodo dolorosa come la maschera di Beethoven.
Per i maomettani Febbraio è il mese della rivelazione del Corano, della scissione della Luna; per i giapponesi è il mese del cambio dei vestiti; per i veronesi, più solidi, il mese  degli gnocchi.
Col giorno delle Ceneri la Chiesa si veste da penitente e il sacerdote indossa il color viola. 
È il grande venerdì degli antichi divieti, la vigilia più stretta; quando un pugno di ceci riacquista quel valore che aveva nel campo sotto la volta di stelle.
Gli stessi re di corona lo mettevano a bagno la sera con una presa di cenere a renderlo cocivo. E la mattina la regina, appena l’alba, lo poneva a bollire in pignatta di coccio con olio aglio e rosmarino. Poi, con la corona in testa, si metteva alla madia a intrider farina e uova, per farne i quadrelli da buttar giù col sale grosso all’ultimo bollore.
Così a me piacciono i re; perché la sovranità, come la grande arte, s’avvera soltanto nella semplicità più virtuosa. E a patto di render regale ciò che tocca.
È tempo ormai di chiudere le battute a cervi e daini. Fino al nuovo autunno la grossa selvaggina dei boschi di Mesola e della Turingia potrà pascolare e amarsi teneramente, rincorrersi fin sotto le case dei guardiani, procedere al galoppo lungo i vialoni.
Fuori delle riserve, lontano, oltre le golene e i canali ghiacciati, sono le strade, le lunghe strade che vanno sotto la bufera e il nevischio; le strade che dipartono carnevale e quaresima, Pomposa e l’Odeon, il vuoto silenzio dei campi e le metropoli sempre più risplendenti e tenebrose sotto i guizzi dei fari.
Tutto corre a morire, a insecchirsi scheletrico nell’aridità del calcolo.
Un gelo, un grigiore. La solitudine della sera afferra la gola: le vie s’allungano all’infinito. Sperduti, perduti, alla mercè d’un pianeta ribellatosi all’orbita. 
Ruvida, grezza, simile a un ordito è la natura. Dopo l’essiccamento dell’estate e i maceri dell’autunno, fibre, rascia, cascami: ogni recesso palesa i rifiuti, le miserie; ogni albero la crudezza d’una travatura, un’ossatura, un carcame. Lo stesso alito degli uomini rivela un’anima fatua, fatta di fumo, fatta di niente.
Di fronte alla campagna spoglia, a quel mare nudo e spento, si ha la stessa sensazione che provano i pompieri, i portaceste a teatro nei giorni di prove. C’è tutto: la regìa, il trucco, le finte: manca la luce il colore il calore.
Di sera il Sole muore in cielo avanti il tramonto, simile a un fiore ghiacciato sulla pianta. E non appena l’olio congela e scricchiola il fiume, tutti i gatti fuori pel ghiaccio a sgranfignarsi fra loro e affilare i coltelli contro i fusti degli alberi.
E con essi lupi, volpi, puzzole, faine. Nei forteti il cinghiale arrota le zanne.
Cos’è che li stana, li stimola? La tormenta, la caccia, la fame?
No. Né paura, né rabbia, né vento; ma quel sortilegio che già rigonfia di uova e di latte le pance dei pesci.
Sono i Pesci dell’alto, quelli dello zodiaco: anche le bestie vengon coinvolte alla gran ruota del tempo. Così le piante che aspettano sotto le croci.
Ma Febbraio è anche il mese della febbre e della purificazione. Non per niente s’inizia con l’offerta di due tortore. La Dea Madre in segreto attende alla sua tela.
Sulle siepi la bambagia, il bigello e l’ordito rivelano la trama d’un arazzo: con sciamiti e lustrini di damaschi e broccati, fra un mese, o al più tardi fra due, la terra getterà i suoi germogli, i suoi tralci; e la stessa morte apparirà come un’età della vita. 
Una gran festa allora ripagherà questa vigilia e si farà strada sul mondo. E il vento che viene dai tesori di Dio farà sulla croce riapparire le rose.


Albrecht  Dürer: Acquarelli
Carel van Mander Paysage de neige avec Crucifixion

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