mercoledì 16 novembre 2011

Blake e Nerval - di Henri Lemaitre


William Blake, morto nel 1827 quando Nerval era poco più che adolescente, fu totalmente ignorato nella Francia del Romanticismo e per un poeta francese di quel tempo sarebbe stato impossibile conoscerne le opere. La comunione fra Blake e Nerval nasce dunque dalla loro appartenenza a un comune esoterismo, dal loro comune riferimento a Swedenborg e alla mitologia orientale: così non ci può sorprendere trovare in Aurélia (Memorabilia) l’immagine-simbolo del “Serpente che circonda il Mondo”, che riveste un ruolo così importante nei Libri profetici di Blake e nelle sue visioni incise o dipinte. Allo stesso modo la fine di Aurélia ci propone un’interpretazione del Cristo come strumento di una redenzione universale degli esseri e delle cose, e dell’Inferno stesso (il “fiore sulfureo” non diviene infatti il “fiore splendente del sole”?) molto vicina al ruolo giocato in Blake dall’Agnello di Dio, tanto che, se non si fosse sicuri che Nerval non poté conoscere Blake, si parlerebbe sicuramente di un’influenza. Tutto ciò si spiega, come già detto, attraverso fonti esoteriche comuni, ma anche per una fraternità d’animo più profonda ancora. Il ruolo mistico della Donna, che Blake chiama “Emanazione”, opposta allo “Spettro”, è lo stesso nei due poeti e, nell’uno come nell’altro, la scomparsa dell’Emanazione femminile è il segno della dannazione: in questo senso non vi è nulla di più blakiano della pagina di Aurélia (II.2) dove la scomparsa della donna trasforma il mondo in un deserto, la cui descrizione coincide esattamente con i paesaggi che riempiono i poemi e le incisioni di Blake. Nerval e Blake sono tormentati dalla medesima ossessione: si attribuisce generalmente all’influenza di Jean Paul Richter l’immagine del “Sole nero” che opprime El Desdichado e che ritroviamo in molti altri passaggi dell’opera nervaliana; questa stessa immagine appare in Blake con il medesimo significato in molti brani, come ad esempio nel Primo libro di Urizen (1794):

...e i Figli di Eternità
sulle rive di oceaniche immensità contemplavano,
come un Sole nero e un cuore d’uomo
che batte al ritmo della propria lotta,
l’immensa apparizione del mondo di Urizen.

venerdì 11 novembre 2011

El Desdichado - di Gerard de Nerval


Io sono il tenebroso - il vedovo - l'inconsolato,
il Principe d'Aquitania la cui torre è caduta;
la mia sola stella è morta - e il mio liuto adorno d'astri
porta inciso il Sole nero della Melancolia.

Nella notte della tomba, tu che m'hai consolato,
Posillipo rendimi e il mare d'Italia,
il fiore che tanto piaceva al mio cuore desolato
e la pergola dove la vite alla rosa s'allea.


Sono Amore o Febo?... Lusignan o Biron?
Sulla mia fronte ancora è rosso il bacio della regina;
ho sognato nella grotta dove nuota la sirena.

Due volte da vincitore traversai l'Acheronte, 
modulando alterni sulla lira d'Orfeo
i sospiri della santa e i gridi della fata.


I quadri di Odilon Redon: Pegaso - Ophelia

mercoledì 26 ottobre 2011

Lezione sull'ombra - di John Donne


Fermati! Ti terrò, amore, una lezione
di filosofia d'amore.
Passeggiavamo, in queste tre ore, e
con noi venivano due ombre
che noi stessi avevamo generato.
Ma ora il sole è a picco sul nostro capo
e calpestiamo quelle ombre,
ogni cosa è trasformata
in coraggiosa luminosità.
Mentre cresceva il nostro amore bambino,
finzioni e ombre fluivano da noi,
dai nostri affanni; ma adesso non è più così.

Non arriva al punto più alto
un amore che teme d'esser visto.

Se non lo fermiamo a questo mezzogiorno,
ombre creeremo nell'altro verso,
e mentre le prime dovevan rendere ciechi gli altri,
queste che si formeranno, agiranno su di noi,
accecando i nostri occhi.
Se il nostro amore impallidisce, se declina al tramonto,
tu a me le tue azioni, mentendo, nasconderai,
io a te, le mie nasconderò.
Le ombre del mattino rimpiccioliscono,
ma queste crescono per tutto il giorno.
Oh, quant'è breve il giorno dell'amore, se l'amore tramonta.

Amore è luce crescente, o piena e costante,
e il suo primo minuto dopo mezzogiorno è notte.


Le fotografie sono tratte dall'album Paris, rue de Tournage di Cris Thellung

venerdì 7 ottobre 2011

Maestri dello spazio - di Lunettes Rouges


Certo, il Beato Angelico è un soave pittore di dolci Madonne e di Cristi dolenti, ma questa mostra al Musée Jacquemart André (le cui sale sono state un po’ ampliate: vi saranno meno code? fino al 16 gennaio) è stata per me soprattutto l'occasione per comprendere meglio il suo senso del luogo, della costruzione dello spazio. 
Ma innanzi tutto, la prima sala offre l’opportunità di incollare il naso alla Tebaide proveniente dagli Uffizi (dove mi sembra non ci si possa avvicinare così tanto alla tavola). 
Questo pannello di due metri di larghezza, il suo primo o secondo dipinto (nel 1420, aveva 20 anni), è fatto per essere guardato da vicino, perchè questo quadro sulla vita dei monaci nel deserto offre una serie di scenette didattiche, edificanti o divertenti (vi consiglio caldamente l'acquisto della collezione di quindici cartoline che riproducono questi dettagli). La vista d’insieme ci sorprende perchè tutto appare appiattito, le barche e le case in primo piano sono di proporzioni minuscole (si veda la barca dove diavoli neri portano via un dannato), mentre i monaci si muovono in un paesaggio roccioso ombreggiato e plastico, ma senza prospettiva (ritornerò più avanti sulla prospettiva). Lo sguardo non sa dove posarsi, se non forse sul funerale in basso, sul catafalco rosso e sul personaggio con la testa da rabbino che vi assiste. Dal catafalco, gli occhi corrono a due donne in abito rosso, le sole donne del dipinto: stanno tormentando un monaco? Sarà senza dubbio la mia immaginazione, ma mi è sembrato di vedere un serpente strisciare dietro una delle due e un maialino nelle mani dell’altra.

Nessun’altra femmina, come sul Monte Athos, al punto che questo monaco munge ... un cervo, non una cerva. I monaci vivono in comunità, non sono eremiti, neppure nel modo idioritmico caro a Roland Barthes. Se alcuni sono reclusi in grotte o nutriti grazie a ceste sollevate da corde, altri lavorano insieme, coltivano, ballano con un orso, minacciano una volpe, cavalcano animali selvaggi (cervi, pantere) o, i più anziani, si fanno trasportare su un carro trainato da due leoni. Vi è un centinaio di altri aneddoti, vediamo ad esempio un monaco in preghiera vestito della sua sola diafana capigliatura, come una Maddalena penitente. La Tebaide di Budapest, vista lì accanto, sembra una pallida copia.

martedì 4 ottobre 2011

Ottobre – di Fabio Tombari

Il pittore specializzato in paesaggi si vede costretto in questo mese a cambiare per intero la sua tavolozza. Simile al musicista che al tramonto dell’eroe, per meglio aderire alla maturità del dramma deve trasportare il motivo del violino in chiave di basso per il violoncello, il pittore cangia il turchino col grigio, il verde col terra di Siena, il giallo oro col sangue di bue.
Il fatto è che la natura stessa, ricorrendo il colmo della venagione, si trasforma in preda. Come del resto le donne.
Non più l’ocra l’indaco il carminio dei pappagalli, ma il color talpa, il fulvo, il rossigno delle pernici, dei tassi e dei cervi, anche nella moda muliebre. Per un processo di mimetismo più in grande, l’Europa tutt’intera assume i colori della sua selvaggina.

È il tempo delle sorbe; e il rigogolo che per i fichi si era vestito d’oro, torna a mutarsi di verde.
Sono le mattine care ai primi pittori olandesi, i pomeriggi dei paesaggisti francesi dell’ottocento; quando il vero poeta esce a caccia senza fucile, così per ammazzare il tempo.
Non ha più idee. Ma il cane lo raggiunge, lo sorpassa, ritorna; cerca, punta, si agita. Poi in gran furia comincia a scavare, disseppellire qualcosa.
Sorpreso, perplesso, il poeta lo segue. Una tana, un tesoro?
No: un piccolo grumo indurito, quasi un cervello coi lobi e le vene.
Lo coglie, lo soppesa, lo fiuta: bulbo? no; radice? frutto? nemmeno; né durone, né ceppo, né sasso.
È come un groppo, un ganglio, e odora di viole di aglio.
Puzza, profuma? Ecco il problema. Sia quel che sia! L’idea che mancava è trovata: e a grandi passi concitati corre in casa trionfante d’aver scovato un tartufo.

venerdì 30 settembre 2011

Il sogno



Ho fatto un sogno questa notte. Mi trovavo sotto un albero di mele, per terra sette ceste colme di frutti...e li vedevo arrivare, come quel giorno di tanti anni fa. Il suono delle loro voci li precedeva, ma non erano  più lugubri inni, erano canzoni allegre che cantavano la primavera e l’amore. Poi li scorgevo, lungo il sentiero che scende dalla montagna: sorridevano e recavano doni, pagnotte dorate, focacce dolci, morbidi panni di lana. Tutta la gente del villaggio accorreva e fino a notte tarda ballavamo intorno ai fuochi, in pace e letizia, come se non avessimo mai subito torti da loro, come se non ci fossimo mai alleati con i loro nemici… 


In questo momento la luce fioca del tramonto illumina a mala pena il grande vaso di terra cotta dove qualche moscerino è ancora attirato dall’odore dolce del succo di mela. Oggi abbiamo preparato il sidro: alcune di noi hanno lavato le mele, altre le hanno frantumate, altre ancora le hanno torchiate; infine abbiamo travasato il succo nelle piccole botti di legno, dove resterà a fermentare per qualche settimana. Poi lo potremo scambiare con orzo e farina : le altre provviste sono già nel magazzino e la legna raccolta in cataste. La breve nevicata dei giorni scorsi lascia presagire un inverno mite, come dicono i nostri proverbi. 

Dalla finestra le case sparse tra gli alberi e la chiesa in pietra mi appaiono come sagome scure: oltre quei muri i pregiudizi e il malanimo ci hanno osteggiato a lungo. La gente e i preti non volevano accettare che tante donne sole vivessero insieme, lavorando e aiutandosi a vicenda. 

Quando l’Eretico e i suoi furono sconfitti, il sangue versato, i morti che piangevamo, la miseria e la carestia, tutto questo accomunò noi che eravamo rimaste orfane, abbandonate o vedove. Alcune donne che, per evitare la condanna a morte, avevano dovuto rinnegare non solo ciò in cui avevano creduto, ma la loro vita di quegli anni e i compagni uccisi, chiesero di poter entrare nella nostra piccola comunità. All’inizio le accogliemmo con diffidenza, più per la necessità di avere altre braccia a lavorare che per autentica carità cristiana. Quanto a me, non potevo ancora perdonare all’Eretico e a chi era stato con lui d’aver distrutto i miei sogni più belli. 

giovedì 29 settembre 2011

Sul sentiero di Fra Dolcino

«Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi,
tu che forse vedra' il sole in breve,
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve»

                                          Dante Inferno, Canto XXVIII







                 il sentiero nel bosco

              i funghi della strega








                                                                                                                                                                                                                                   


                        il gigante sconfitto












ultimi colori dell'estate









domenica 11 settembre 2011

Settembre - di Fabio Tombari

I fiumi, la prima bora, le strade. Strade che costeggiano la marina e si smarriscono qua e là lungo i tigli e i tamerici umidi dei viali, sotto le prime ville chiuse e i giardini lambiti dalle onde; strade lunghe, deserte, sorvolate in alto da grandi uccelli di mare nel vento; strade caliginose battute dalla pioggia; quando le signorine di provincia escono coi gomitoli di lana e coi quaderni per recarsi da un’amica vicina a fare la maglia o a riprendere lezioni di piano; mentre nei sobborghi o lungo le spiagge, le passeggiate dei seminaristi somigliano ad accompagni funebri senza feretro.

È questo il mese in cui ogni distanza dà il senso della nostalgia, quando l’orizzonte si perde dentro chiusi orizzonti, e l’estate ritrova finalmente nella morte la propria nobiltà.

I fiumi traboccati via a fuga dalle doghe della montagna cominciano a invadere le arcate laterali dei ponti. Passano sulle acque sporche le spoglie d’una stagione compiuta, gli ultimi avanzi di un’età fradicia che la prima mareggiata rigetterà sulle coste insudiciando le spiagge.

Sono belle in settembre le grosse burrasche, gli scuri di riva visti dal largo, per i quali tutta la baia s’imbruna sotto la minaccia dell’uragano, mentre le ondate irrompono fin nei capanni, e i maschietti che han letto Salgari non vogliono più uscire.

È così bello col capanno che minaccia un naufragio in piena regola e le tavole che scricchiolano e la spuma che monta. Questa è la nave maledetta e loro i pirati della Malesia.

“Corpo di mille bombarde!” grida il più piccino, “Venderò cara la mia vecchia carcassa”.
Le bambine invece tornano alla spiaggia con le calze e le scarpette, e la bambola cui han messo la cuffia perché fa fresco. Vengono a salutare le amiche e gli amici che partono; qualcuna ha il cuoricino gonfio. Parte anche Giorgio proprietario del canotto di gomma. È mezz’ora che stanno lì a salutarlo, tutte intorno a lui; e mentre Giorgio se ne va felice, le bambine si metterebbero a piangere se non avessero ritegno una dell’altra.

domenica 24 luglio 2011

Da curve di nuvoli - di Arturo Onofri

Da curve di nuvoli aleggia,
in grembo al meriggio turchino,
la voce dei mondi: è un bambino,
che guida una candida greggia
a pascer gli steli
di sole, nei cieli.

E il piccolo bimbo è il pastore
celeste, che parla e risponde
all’umili pecore monde
lungh’esse le prata sonore,
dov’erbe e mentastri
fioriscono in astri.

Con flauto d’angelico argento
dà voce alla melodia grande
che sboccia fra i mondi, e s’espande
fin dentro la terra, con vento
che in nubi sorregge
candori di gregge.


venerdì 8 luglio 2011

Dio visibile o invisibile?


Nella chiesa palladiana dei Benedettini di San Giorgio Maggiore, nel punto di intersezione fra la navata e il transetto, si trova quel che potrebbe essere un battistero di pietra bianca, senza alcun ornamento. Da questo pseudo-battistero si innalza a tratti una colonna di fumo che sale verso la cupola, costringendoci ad alzare gli occhi al cielo. Potrtebbe essere una discesa sulla terra della luce divina, come nel libro di catechismo della mia infanzia, materializzando la presenza di un Dio che non si manifesta. Potrebbe essere un'Ascensione, sia cristiana (Cristo, la Vergine), sia musulmana (il Profeta), ebrea (Elia) o buddista.
I getti di vapore si levano incerti, in volute, in mulinelli, spinti, aspirati, più o meno densi, talora evanescenti, talora nascondendo lo spazio circostante. Mi è piaciuta questa incertezza, questi tentativi spesso vani di innalzarsi: vi ho visto un dubbio, un'incertezza sulla presenza della grazia che a volte si offre e a volte si ritrae, ma che non è mai assicurata. E sono rimasto assai deluso quando mi hanno confidato che si sono verificati alcuni problemi tecnici di temperatura, igrometria, correnti d'aria. Era per questi inconvenienti che la colonna vacillava, si dissolveva, riusciva a riformarsi solo dopo molto tempo. Preferisco di gran lunga la mia "spiegazione" mistica.
E' un'opera sul soffio, sull'immateriale: Ascensione di Anish Kapoor. E' già stata esposta a San Gimignano, in Brasile e in Cina, ma è la prima volta che la si vede in un luogo sacro (ed è la prima volta che la Basilica ospita un'opera d'arte contemporanea). Si tratta di una creazione molto più raffinata, più spirituale, più ricolma di energia della mostra al Grand Palais. Qui la tecnica diviene trasparente, non più materiale, fa apparire una forma partendo dal nulla. Mi sarebbe piaciuto vedere fumi d'incenso durante una Messa solenne e le teste chine nel momento dell'Elevazione, mentre la colonna si alza.
Per Kapoor è anche un richiamo alla colonna di nubi attraverso la quale Dio si manifesta a Mosè e agli Ebrei nel deserto (Esodo, 33): di madre ebrea irachena, interessato alla Cabala, Kapoor si rifà qui alla tradizione ebraica e musulmana della non- rappresentazione di Dio, mentre il Nuovo Testamento, grazie all'Incarnazione, autorizza la rappresentazione del divino. Forse quest'opera è un ponte tra religioni che rifiutano la raffigurazione antropomorfica di Dio (animismo, ebraismo, islam) e altre in cui Dio ha figura umana (mitologia greca e romana, cristianesimo). Si potrebbe senz'altro approfondire l'antinomia tra queste due culture, queste due concezioni del sacro: quella del visibile, del razionale, del manifestabile e quella dell'invisibile, del nascosto.

pubblicato da Amateur d'art par Lunettes rouges - 10 giugno 2011

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