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domenica 26 aprile 2020

Uomo in armatura (Rembrandt)


Rembrandt, Uomo in armatura, 1655 Art Gallery and Museum, Glasgow
Sul nr. 38/1984 della rivista “Das Goetheanum”, Dirk Vis ha tentato, e va ringraziato per questo, di correggere indicazioni errate e mezze verità che si tramandano riguardo a questo quadro. Rimane però il dubbio, per diversi motivi, se così sia stata vinta la affascinante chimera di queste “tradizioni”, in quanto ne emergono sempre nuove teste. Nel 1983 mi venne riferito che una antroposofa, mancata poco tempo prima, si era fatta mostrare il retro del quadro nel Glasgow Museum e che vi avesse letto la scritta “Questo è l’uomo che mi insegnò il segreto del chiaro scuro”. Conoscevo quella persona, sapevo che era coscienziosa, oggettiva, scientifica; non riuscivo però assolutamente a immaginare che al museo avessero acconsentito a girare il quadro. Tentai con l’aiuto di amici inglesi di andare a fondo alla cosa. Grazie al signor Mann dell’Emerson College, o meglio del signor Hess di Glasgow, potei mettermi in contatto con il direttore del museo, signor Stevenson, che mi disse: “Sul quadro non si è trovata nessuna scritta, neppure un’accurata ricerca ai raggi X ha dato risultati”.

Nel suo articolo, Dirk Vis ci assicura inoltre che non esiste un elenco autografo di Rembrandt e che quindi la frase tramandata non può essere stata letta lì (neppure lì). La cosa ha un effetto tranquillizzante in quanto finalmente ci si trova sul “terreno dei fatti”. Se però si tiene conto che anche ai nostri giorni avviene che dagli archivi spariscano senza lasciare traccia documenti importanti, come pure oggetti esposti nei musei che anni prima erano visibili, il terreno diventa di nuovo meno sicuro. Viceversa, capita anche che improvvisamente emergano documenti che ribaltano del tutto i fatti “certi”. Anche in questo caso perciò non va esclusa del tutto la possibilità che la frase non sia stata semplicemente inventata e che un giorno possa venire a galla la soluzione dell’enigma.
Dalla lettera della signora Lindholm citata da Vis, emerge che non doveva trattarsi di un elenco, bensì di annotazioni che Rembrandt prendeva riguardo ai propri quadri (1).
Anche se fosse stata scritta da Rembrandt, quella frase non screditerebbe, come teme Vis, tutte le sue opere precedenti, in quanto non implica affatto che Rembrandt abbia conosciuto l’uomo solo quando ne ha fatto il ritratto.
Dirk Vis riferisce poi la storia della nascita di questo quadro: si trattava di un ritratto di Alessandro commissionato da un collezionista di quadri; vanno quindi escluse tutte le circostanze che hanno portato alle leggende antroposofiche. Rimangono aperti però alcuni grossi interrogativi, perché la “biografia” del quadro è del tutto incerta e vi sono diverse ipotesi contrastanti. Gli esperti di arte indicano il quadro come Marte, come giovane guerriero, come uomo in armatura, in precedenza anche come Achille o appunto come Alessandro, ma sempre con molti punti interrogativi. Come è noto da uno scambio di lettere, citato anche da Vis, il collezionista Ruffo aveva commissionato a Rembrandt un “Alessandro”, come contrappeso all’Aristotele già realizzato. Si lamenta riguardo alla prima versione “che il quadro sia dipinto su quattro pezzi di tela cuciti insieme”. Vis cita l’episodio e prosegue scrivendo che il quadro ora a Glasgow consiste “in effetti di diversi pezzi di tela cuciti insieme”. Non dice “quattro”. Per quanto abbia potuto verificare nell’originale, la tela ha una aggiunta in basso e lateralmente a destra. Ma da parte di diversi ricercatori si suppone che le aggiunte siano state fatte solo più tardi, nel XVIII secolo; non si tratterebbe quindi di una tela cucita insieme da Rembrandt. Diversamente sorge la domanda se Rembrandt non abbia avuto la necessità di ingrandire la tela anche in altri suoi quadri, quando gli serviva una superficie maggiore per il suo lavoro. Anche qui non abbiamo certezze, ma solo supposizioni. Anche la data dell’anno 1655, che in passato era visibile e che oggi non è più riconoscibile, escluderebbe l’identificazione di questo quadro con quello ordinato da Ruffo.
In tutte queste riflessioni si è però del tutto dimenticata una cosa, cioè il quadro stesso! Che cosa vi si vede in realtà? Si vede un uomo con una corazza, un elmo, uno scudo e una lancia, il cui volto leggermente riflessivo fa apparire la corazza e le armi di natura piuttosto simbolica. Sulla corazza del torace, evidentemente un farsetto di cuoio, appare una croce segnata dalla luce e sopra il cuore la corazza si trasforma in modo veramente singolare in penne di cigno bianche e luminose. L’area è attraversata da una cinghia di cuoio, e quindi ne risalta ancor di più il chiarore. Il portamento dell’uomo è eretto, il viso leggermente inclinato a partire dal collo, le spalle quiete e diritte. Sotto il mento vi è un fiocco, una specie di Lavallière, tenuto da una spilla decorativa. Con il rosso pieno di forza del mantello si aggiunge una decisa componente di coraggio.
Due parti hanno uno splendore particolare: il forte riflesso luminoso dell’elmo e le penne bianche come neve nella regione del cuore.
Non sappiamo nulla sull’origine di questo quadro. Se la figura dipinta si è fatta ritrarre in questo atteggiamento oppure se Rembrandt vi ha condensato i ricordi di una persona di cui aveva forse potuto fare uno studio ritrattistico.
Il volto leggermente inclinato ci mostra un uomo di mezza età, fra i 35 e i 50 anni. L’ipotesi che Rembrandt abbia ritratto qui il figlio Tito trasformandolo in un “Alessandro”, mi sembra poco plausibile. Perché Rembrandt avrebbe dovuto trasformare un volto giovane in quello di un uomo maturo, dato che è tipico di Alessandro proprio il tratto giovanile?
Ma soprattutto, un’armatura normale non mostra una croce di luce e meno ancora che ne nascano delle penne di cigno. Con questi segni Rembrandt ha caratterizzato la figura dipinta come un uomo che è legato alla croce, ma in un modo particolare. Avrebbe potuto dipingere una croce templare o una decorazione corrispondente. Vi aggiunge un elemento del tutto innaturale, le penne di cigno. Una cosa del genere era necessaria e adeguata a un Alessandro ordinatogli dal collezionista italiano?
Il ritratto “Atena” o “Alessandro” di Lisbona, anch’esso preso in considerazione per l’ordinazione di Ruffo, mostra chiaramente il tratto giovanile. Entrambi i quadri, lo facciamo notare solo marginalmente, possono venir osservati in una ottica del tutto diversa che fa emergere la peculiarità del cavaliere di Glasgow.
La forma dell’elmo, che colpisce per la sua nobiltà, è in sintonia con le penne di cigno. La cima che si alza sopra la testa ed è leggermente rivolta all’indietro, può ricordare le ali aperte di un cigno in volo. Se Rudolf Steiner (come ricorda D. Vis, o meglio H. Wiesberger) scrisse dietro una riproduzione di questo quadro per la signora von Vacano, le parole di Elsa dal Lohengrin di Wagner: “Voglio salvare il cavaliere, deve essere il mio combattente”, non sono necessarie particolari speculazioni per trovarvi il nesso con il quadro.
Con le due peculiarità con cui Rembrandt qualifica quest’uomo, si rafforza ancora l’impressione che viene sia dal volto sia da tutto il quadro nel suo insieme. La croce di luce e le penne di cigno suscitano domande nell’osservatore. Sta poi nel quadro stesso il fatto che queste domande vadano in una certa direzione. Gli enigmi che ruotano intorno a questa personalità sono quindi già suscitati dal pittore.
La percezione di questo quadro particolare collima con una frase di Rudolf Steiner tramandata come autentica, e cioè la sua intenzione di regalare alla signora Geelmuyden un quadro del conte di Saint Germain “nella sua incarnazione olandese”. Se Rudolf Steiner riteneva possibile procurarsi una riproduzione, doveva trattarsi di un quadro noto. È comprensibile che si sia pensato all’“Uomo in armatura”.
Qui sembra chiudersi una catena, anche se con passaggi non dimostrati. Le linee convergono da due lati. Dalla raffigurazione di Rembrandt si evince che deve trattarsi di una personalità particolare, di un combattente cristiano che tuttavia si presenta piuttosto come un cavaliere dello spirito. Questa fu anche la sensazione di Marie Steiner. Le sue parole, che si trovano nei suoi “Ricordi”, riportano anche le frasi seguenti: “Elmo, scudo e lancia, così come si adattano a questa figura, caratterizzano come in nessun altro quadro, il cavaliere spirituale che, intessuto di interiorità e di scienza, dispone di queste armi solo a servizio dell’umanità. Non si sarebbe potuto fare un quadro migliore di Rudolf Steiner, dato che nel nostro tempo mancano le capacità estetiche per ritrarre in un’immagine sensibile il contenuto spirituale...”
Non è prerogativa solo degli antroposofi avere una impressione del genere. Carl Neumann scrisse dei “tratti impenetrabili ed enigmatici del volto” e di come “questo volto con il suo involucro di ombre resti l’oggetto principale (del quadro). Il misterioso rilucere emerge da un nucleo scuro che desta sentori e brividi. Il custode di un tesoro, di un Graal, di qualche realtà elevata, si potrebbe supporre. Il quadro ricorda con una mistica ricca di incanto un punto del Flauto magico di Mozart in cui due uomini corazzati montano la guardia davanti alla porta chiusa degli elementi fuoco e acqua … Si ha il sentore di essere davanti a una realtà straordinaria, che porte oscure aprano le loro bocche e che solo il massimo coraggio del cuore sia in grado di vincerne gli orrori,” (2)
Nelle considerazioni degli storici dell’arte non si parla quasi mai della croce di luce e delle penne di cigno. Si ha l’impressione che i commentatori siano in difficoltà e si vergognino ad ammettere che Rembrandt abbia dipinto qualcosa di così strano. Appunto, è del tutto inusuale. È come una immaginazione che si manifesta esteriormente in un quadro.
Il quadro, il cui colore di fondo è un marrone che tende più verso tonalità verdi che rosse (come si vede in molte riproduzioni), non suggerisce un’atmosfera diurna, ma notturna. Si guarda in uno spazio che per l’osservatore è quasi troppo scuro per scorgervi qualcosa. Non si riesce a immaginare la luce, poco legata al corpo e poco plastica, che mostra l’uomo tutto avvolto dallo spazio scuro del quadro, come la luce di una lanterna stradale o di una fiaccola. Tutto esprime essenzialità e costituisce l’unitarietà del quadro. La cima dell’elmo rivolta verso l’alto sembra indicare da dove l’uomo prende le proprie forze di consapevolezza e di coraggio. Se si copre questa parte superiore dell’elmo, ci si accorge che la figura dà l’impressione di essere molto più terrestre e limitata, ma per il quadro sarebbe ovviamente del tutto sbagliato fare una operazione del genere.
Guardando il dipinto scopriamo che Rembrandt trasmette al nostro sentire realtà molteplici: l’“Uomo in armatura”, il “Guerriero sconosciuto”, il crociato senza segni esteriori dell’appartenenza a qualche ordine, guidato dal mondo soprasensibile come lo sono i Cavalieri del cigno. Egli ha riconosciuto un uomo del suo tempo come una entità di questo tipo. Chi può essere stato questo uomo? La corrispondenza con le parole di Rudolf Steiner è in verità molto forte.

1- H. K. Zimmer si riferisce qui ad una lettera di Ingeborg Möller-Lindholm a Karl Heyer ricordata da D. Vis: «Uno storico dell’arte olandese (antroposofo) ha raccontato alla signora Geelmuyden quanto segue: voleva scrivere qualcosa su Rembrandt ed ebbe l’occasione di vedere in un archivio o in un museo in Olanda una piccola annotazione di Rembrandt sui suoi quadri. In corrispondenza del quadro in questione aveva scritto in modo lapidario: “Ritratto di colui che mi insegnò il segreto di luce e tenebra.”»
2- Carl Neumann Rembrandt, 2 volumi, Monaco 1924



Hella Krause-Zimmer, da “Imagination und Offenbarung“, Verlag Freies Geistesleben, 2004
(Traduzione di Stefano Pederiva)

sabato 25 aprile 2020

Due ritratti – due polarità


Ritratto di uomo (detto “Ariosto”) National Gallery

Se ci troviamo alla National Gallery di Londra, davanti al “Ritratto di uomo” dipinto da Tiziano (intorno al 1476-1576), notiamo prima di tutto la voluminosa manica di seta blu trapuntata, dipinta con grande perizia: la stoffa. E sopra la testa consapevole di sé. Su che cosa poggia questa autocoscienza? Nel senso dell’immagine: sulla stoffa. In senso più ampio: sulla materia. L’uomo non mostra molto di sé, non una bella mano, o il petto. Al nostro interesse per la sua personalità risponde con la manica rigonfia e preziosa, fredda nel colore. La costruzione della personalità si fonda su questo blu tendente al grigio che forma una specie di basamento. Una elevazione del sé sulla resistenza della materialità. Vi adatta di conseguenza il suo atteggiamento. E gli riesce. Un uomo del Rinascimento che possiamo immaginare come ospite a una tavola di cui sa apprezzare il cibo, ambizioso, vanitoso, ma non senza un certo tratto di grandezza. Ha delle ambizioni e porta le tracce dello stile mondano della Venezia di allora. Sa di essere importante e desidera che gli altri lo notino. Certo vi è anche una predisposizione all’ironia che sa prendersi gioco dei grandi propositi. La tendenza ad abbassare gli angoli della bocca è sottolineata dal modo in cui viene dipinta la barba. I capelli e la barba sono molto curati per essere adatti al volto. Non compaiono tempeste celesti, né fiamme di passione. Mantello nero, colletto bianco, su uno sfondo verde del tutto immobile. Nessun movimento libero. Fin nei moti di pensiero si sente come ideale: il sostegno della realtà terrestre. Nessuna mano aperta, non ci lascia leggere le carte, mette davanti la “spalla fredda”. Un quadro magistrale. I mezzi espressivi e quanto si vuole dire si compenetrano.


Autoritratto a 63 anni, 1669, National Gallery, Londra
Nello stesso museo: un ritratto, di cent’anni dopo all’incirca, un Autoritratto di Rembrandt. Solo tonalità calde, marroni e rossicce, con un sottile bordo bianco che emerge dal berretto e una luce bianca con tonalità gialle sul volto. La posizione nel dipinto è simile, ma l’atteggiamento è radicalmente diverso, come lo sono i colori. La spalla destra sembra ritrarsi, mentre il petto qui è visibile. Il braccio non viene sollevato e non fa da appoggio, la spalla tende verso il basso. Il mantello di pelliccia non ha nulla di decorativo, nessun adattamento, serve solo per scaldare. E così è dipinto. La manica: avvolgente, calda, priva di ornamenti, ma non indifferente e trascurata. Il volto consente alla luce di scoprirne tutti i rilievi con i loro chiari e scuri, le loro ombre. Nulla di nascosto, nessuna posa. Lo sguardo leggermente abbassato guarda fuori dal quadro, incontro all’osservatore, ma non si rivolge a lui. È un autoritratto: il pittore guarda se stesso. Nessun volto liscio, per quanto senza barba, nessuno sguardo artefatto che intenda confermare l’atteggiamento della spalla. L’uomo del Rinascimento è superato. È svanita la coscienza gonfia di orgoglio alle soglie della nuova epoca; preoccupazioni e lotte interiori gravano sulla vita. Il pittore ha sessantatré anni. Capelli grigi spuntano da sotto il berretto.
Quanta strada dall’autoritratto di Rembrandt con il grande cappello e le gloriose penne! E’ tutto passato, non esiste più. Ma non vi è un capo chino, o una grigia povertà. Neppure la ricerca di una dignità della vecchiaia, nulla di tutto ciò. Perché il quadro ci scuote? E’ sul filo sottile della rassegnazione, ma è senza rassegnazione. Una consapevolezza. Colui che qui guarda se stesso, non vuole farsi illusioni di sé. Guardare soltanto come sono le cose e come sono state. E sopportare questo sguardo, accettarlo. Si prende in mano da sé, un cerchio chiuso, cerca la disposizione interiore in se stesso. La fine della vita non è lontana, Rembrandt morirà quello stesso anno. Tutto ciò che era si distacca da lui: trionfi, errori, sguardo indagatore verso ciò che è importante. Esercizio a tener testa con pazienza. Oggettivamente, senza aggiunte o cose da togliere. Non fa smorfie, non ride di sé, non si fa un esame. La riflessione poggia sul disegno del destino nella sua vita e sui segni che gli ha lasciato sul volto. Dietro a questa calma si placano le tempeste della ricerca del proprio sé. Attraverso tutti i volti sempre di nuovo lo sguardo ai propri tratti. Ancora ora. Ma ora sembra trovare qualcosa che non ha mai trovato prima. Perché non cerca più per questa vita: solo autoconoscenza. Un uomo maturo per vedere il suo karma, che trattiene le scosse, che sopporta se stesso.


Due ritratti, due mondi. La sicurezza delle forme di uno, le belle proporzioni, il consapevole accordo di colori, tutto questo è sulla via che cerca la bellezza, l’idealizzazione (la bella apparenza), la realizzazione delle leggi estetiche. Questa via ideale entra in contraddizione con se stessa, se la si imbocca per innalzare una personalità troppo terrena. Tocca allora, o la supera, la soglia dell’alterigia. L’altro ritratto: qui pittoricamente non si percorre una via orientata all’apparenza e al gioco delle belle forme. Questa via non segue la bellezza, ma la bontà. La bontà diviene bellezza da dentro e mette in una luce che non è esteriore le rughe e l’età, una luce la cui qualità si sente come grazia. La grazia quale interiore elemento divino rende possibile l’esistenza umana e compenetra il corso della vita. L’uomo sul quadro ha una sicura consapevolezza di sé, non si sente delimitato, ma immerso e avvolto. L’alterigia personale si è sciolta, l’individualità guarda attraverso la maschera terrena, dà l’atteggiamento, configura i tratti del volto e osserva attraverso gli occhi l’apparizione peritura, nutrita dalle profondità dell’imperituro. A questa autocoscienza si accompagna devozione.
L’elemento apollineo è diventato freddo nell’uomo di Tiziano. La personalità terrena assorbe più di quanto voleva da questa componente terrena. L’elemento dionisiaco è diventato portatore dell’umano in Rembrandt. Luce di fiaccola diviene calore dell’anima.
Il primo quadro si ammira. Il secondo quadro muove l’anima e desta la coscienza per il destino.
Hella Krause-Zimmer, da “Imagination und Offenbarung“, Freies Geistesleben, 2004
(Traduzione di Stefano Pederiva)

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