domenica 24 maggio 2020

Il giovinetto bianco a Ravenna




Annuncio del rinnegamento di Pietro

  
Grazie a un’opera del primo cristianesimo, i mosaici di Teodorico in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, diventa molto più trasparente la comprensione del “giovinetto bianco“(1)quale parte essenziale del Cristo Gesù, quale segnatura immaginativa che ne rivela la natura soprasensibile. La figura del giovinetto nei mosaici si collega facilmente al tema del “giovinetto bianco” (e degli uomini in vesti bianche dell’Ascensione).
La figura bianca non compare, come in Marco, solo all’ultimo, ma è costantemente al fianco di Gesù, insieme a lui opera nelle azioni che provengono dalla sua essenza divina (dove la comprensione di questa essenza divina proviene ancora fortemente dall’antichità). Quando compie le guarigioni e i miracoli, il Cristo Gesù è sempre accompagnato da vicino dal giovinetto bianco. Sulla parete della chiesa dove vediamo i mosaici della Passione il giovinetto è scomparso.
Questi mosaici, realizzati poco dopo il 500, presentano inoltre la peculiarità che l’immagine del Cristo si modifica. Nel lato settentrionale lo vediamo giovane, apollineo e bello, mentre nel ciclo della Passione sul versante sud ha un viso emaciato e con la barba. Che la scelta sia intenzionale e faccia parte di una articolata composizione artistica con precisi nessi, diventa chiaramente visibile grazie al giovinetto bianco. Infatti, nella sequenza della Passione compare ancora una volta, ma è solo un’immagine ricordo! A Pietro era stato predetto che avrebbe rinnegato il Cristo tre volte prima del canto del gallo. Questa predizione si avverò poco prima dell’inizio della Passione, dopo l’Ultima Cena. Vi è un rapporto con le profetiche parole del Cristo relative agli eventi che si sarebbero svolti quella notte: “Voi tutti sarete scandalizzati ... Ma Pietro gli disse: quand’anche tutti fossero scandalizzati, io non lo sarò.” Ma il Cristo gli fece capire che prima dell’alba (il canto del gallo) lo avrebbe rinnegato tre volte. Nei mosaici di Teodorico è inserita questa scena, al posto del vero e proprio rinnegamento.

L’arresto di Gesù

Ci mostra il compagno vestito di bianco in una intima, in un certo senso, ultima unione col Cristo. È molto vicino, sta dietro di lui, quale rappresentante delle forze che conoscono il piano della Redenzione e rendono possibili le profezie. Nelle scene successive si vede Gesù, abbandonato da lui, con le braccia rivolte in basso e il volto emaciato.
Rudolf Steiner parla della figura di Gesù dopo la scena di Marco come del Figliuol dell’uomo con il quale il Cristo cosmico aveva ancora solo un legame molto labile:
“Là stava l’uomo che per tre anni aveva scacciato gli influssi luciferici ed arimanici. Là era ripristinato… quel che l’uomo era stato prima che giungessero Lucifero ed Arimane. Solo grazie all’impulso del Cristo cosmico l’uomo era tornato a essere come era stato posto nel mondo fisico muovendo dal mondo spirituale”
Pregando, gli uomini avrebbero dovuto dire: “Là sono io stesso nella mia vera entità, nel mio massimo ideale, là sono nella figura che devo raggiungere da me stesso attraverso l’impegno più sacro… In tutto l’immenso mondo circostante non esiste nulla di così grande da poter essere confrontato con quanto sta qui davanti a noi come Figliuol dell’uomo! In quel momento storico l’umanità avrebbe dovuto avere questa autoconoscenza. E che cosa fece l’umanità? Sputò addosso al Figliuol dell’uomo, lo flagellò e lo condusse al luogo della Crocifissione.”(2)
Ciò che in questo passo ci offre all’elaborazione interiore, si esprime in forma di immagine nella doppia composizione dei mosaici di Ravenna. In modo per certi versi esagerato, ma molto “tipico”, viene presentato il mutamento dal Gesù al quale è collegato il Cristo cosmico (la figura che irraggia giovinezza e bellezza) al “Figliuol dell’uomo”, alla cui nobiltà e grandezza non hanno più parte né i tentatori luciferici, né quelli arimanici, che tuttavia non è riconosciuto, né accolto, dagli uomini.
Se si volesse cercare una dimostrazione che presso i primi cristiani esisteva una comprensione di quanto viene accennato nella scena di Marco, la si trova in questo ciclo figurativo.
Rudolf Steiner ci dà la possibilità di vedere l’Ascensione sotto diversi aspetti. Da un lato segna la fine dell’intenso periodo di insegnamento del Risorto ai suoi discepoli dopo la Pasqua, quando arrivò da loro attraverso le porte chiuse. Quaranta giorni di pure esperienze spirituali e di disciplina spirituale che furono possibili soltanto perché i discepoli erano ancora in grado di attivare i resti di una antica capacità chiaroveggente proveniente dal passato dell’umanità Ma alla fine questa chiaroveggenza li abbandona e così svanisce al loro sguardo anche il Risorto. I loro occhi non riescono più a seguirlo, scompare alla vista, ascendendo verso le nuvole.
Un altro aspetto: il Cristo, “in quanto si è manifestato in involucri esteriori” (comparendo quindi anche in forma corporea), si dissolve “nel mondo spirituale vero e proprio”(3). Questo significa che viene deposta anche la forma del periodo successivo alla Pasqua, che segue ancora nel suo apparire la forma fisica e che gli assomigliava. Anche in questo senso il Cristo svanisce, abbiamo una “ascensione”. Passa nell’aura complessiva della terra e non resta legato alla forma corporea di un singolo uomo.
Dieci giorni dopo avviene una specie di rivolgimento: con l’evento della Pentecoste risorge ora nell’interiorità, nei cuori degli uomini. Ma questa trasformazione ha potuto compiersi perché i discepoli, pesantemente colpiti dallo shock della perdita, solo ora si sentono del tutto abbandonati, nel loro orto animico irrompe pena e perplessità, solo così possono accogliere il colpo spirituale delle fiamme pentecostali.
Una prospettiva ancora diversa si apre con le parole: “Non soltanto l’uomo, ma ogni essere dal più baso al più elevato, impara grazie al fatto di evolversi… Anche le entità spirituali sperimentano qualcosa che li porta ad un gradino superiore. Quanto Egli sperimentò con la propria ascesa in un mondo ancora più elevato rispetto a quello in cui era in precedenza, lo fece apparire a chi gli era stato compagno sulla terra come la sua ascensione”(4).

Note:
1-                  Qui l’autrice fa riferimento a Marco 14,50-53 dove si legge, dopo l’arresto del Cristo: “Allora abbandonatolo, tutti fuggirono. Vi fu però un giovanetto che lo seguiva, avvolto in un panno di lino sul corpo nudo; e lo presero. Ma lui, lasciato il panno di lino, scappò via nudo”. In un articolo precedente scrive: “In alcune traduzioni si legge anche di un lino ‘fine’, oppure ‘bianco’. Un giovinetto ‘avvolto in un panno di lino sul corpo nudo’ corrisponde a un giovinetto vestito di bianco. Rudolf Steiner parla per esteso di questo passo di Marco. Del giovinetto bianco dice che è l’espressione del fatto che dal Cristo si è staccata la sua parte essenziale cosmica, che se ne va ciò che è immortale, abbandonando il ‘Figliuol dell’uomo’ sulla via della sua Passione, restandovi collegato solo in modo assai labile.” Riguardo all’Ascensione ricorda la storia degli Apostoli in cui si legge “E dopo aver detto quanto precede ascese e quando lo seguirono con lo sguardo vedendolo salire in cielo, due uomini in vesti bianche comparvero vicino a lui e dissero: Uomini di Galilea che cosa vedete e che cosa ascende al cielo? Questo Gesù che è stato accolto in cielo abbandonandovi, tornerà, così come lo avete visto ascendere al cielo …”. Ricompare il tema delle vesti bianche. [Nota del traduttore]
2-                   Rudolf Steiner, Il vangelo di Marco, OO 139 – Ed. Antroposofica
3-                  Rudolf Steiner, L’evento della comparsa del Cristo nel mondo eterico, OO 118, 15.5.1910 - Ed. Antroposofica 4- Rudolf Steiner, Il vangelo di Giovanni in relazione con gli altri tre, OO 112 - Ed. Antroposofica
Hella Krause Zimmer, da “Offenbare Geheimnisse der christlichen Jahresfeste“,

2003 Freies Geistesleben

(Traduzione di Stefano Pederiva)




venerdì 22 maggio 2020

Se il computer ci trascina in basso...

Working Late di Zvi Szir 

Sono gli uomini che non pensano più e che diventano 
un blocco di dati il prezzo per le macchine che pensano?
Non dover più andare nella rete sarà ad ogni modo presto
il massimo lusso di libertà esistente in Europa
                                                                                                        Ulrich Dziubany 


Non è facile portare a coscienza l’azione del computer sull’uomo e sul suo pensare. Proprio le persone il cui rapporto col computer è segnato dalla dipendenza o perfino da un tratto maniacale, non vogliono guardare là dove si mostra la realtà spirituale dell’influsso del computer.
Non osiamo farlo perché sappiamo che taglieremmo il ramo su cui siamo seduti. Le persone non libere si preoccupano così tanto del bambino che non vogliono buttar via con l’acqua del bagnetto, che non si accorgono affatto di quanto si presenti rugoso e cianotico.
Cosi dice Andreas Laudert nel suo mirato linguaggio immaginativo. L’arte che spesso coglie quanto sfugge allo sguardo quotidiano può essere qui di grande aiuto.
In questo senso sono particolarmente grato a un quadro dell’originale artista antroposofo Zvi Szir che dirige a Basilea la scuola d’arte NeueKUNSTschule. Con il quadro Working Late, Zvi Szir mi ha permesso di sperimentare e di conoscere che cosa può succedere all’uomo davanti al computer.
Vorrei qui descrivere quel che noto, osservando il quadro, e collegarlo alle mie esperienze con il computer. Altri potranno magari vedervi dell’altro o darvi un peso diverso. Questo è il bello di un quadro: è molto più grande dei pensieri che vi sovrapponiamo. Lascia aperte più possibilità di interpretazione.
Paralisi della volontà: inizio guardando la tavola che separa il terzo inferiore del quadro dai due terzi superiori. Rispetto all’uomo seduto davanti al laptop, la tavola separa l’area superiore del sentire e del pensare dall’area inferiore della volontà. Siamo così già a un punto essenziale: chi non conosce la paralisi della volontà che produce in lui il computer? Tanto è semplice accenderlo, tanto è difficile spegnerlo! Quante volte ci si propone di guardare velocemente solo la posta e poi, due ore dopo ci si risveglia da attività insensate, ammettendo a se stessi con qualche senso di colpa che si è semplicemente buttato via tempo prezioso!
Sembra che davanti a quell’apparecchio non solo perdiamo il senso del tempo, ma anche la presa consapevole sulla volontà. Dimentichiamo quanto in realtà vogliamo e veniamo risucchiati, affascinati da una qualche potenzialità della tecnica o di Internet.
La zona della volontà sotto la tavola è buia. Vi si riconoscono con difficoltà delle forme. Vi domina volontà oscura, non rischiarata. Le gambe dell’uomo sono strette fra loro e ripiegate. Si ha l’impressione che siano schiacciate l’una sull’altra e bloccate. La volontà dell’uomo è bloccata davanti al computer. I colori sono del resto quelli del bambino piccolo, celeste e rosa. La volontà diviene infantile. Per me è una immagine azzeccata per quanto sperimento ogni volta: davanti al computer gli adulti possono essere perduti e pilotati da fuori come lo sono i bambini e i ragazzi.
Quella disciplina della volontà, a cui abbiamo tentato di educarci nel corso degli anni, scompare misteriosamente non appena si è seduti davanti a quella scatola luminosa dalle sconfinate possibilità. Si diventa infantili nella volontà. Infantili e legati. La presa sulla volontà si indebolisce. Sorge una paralisi nell’ambito del volere.
La natura del desiderio sopraffà il sentire: sul tavolo sta il computer grigio con la mela bianca: è quella che ha morsicato Eva portando al peccato originale? (Se si tiene conto che Steve Jobs stabilì il prezzo di vendita dell’Apple I 1975 a 666,66 dollari si può pensare anche ad altri ispiratori, rispetto alla dolce serpe del paradiso…).
Il laptop aperto riempie lo spazio del respiro e del cuore con un rettangolo grigio, riempie lo spazio con una assenza di colore, lontano dall’anima, là dove stanno la nostra facoltà di amore (cuore) e i nostri organi di equilibrio sociale (polmoni). In molte biografie umane è diventato realtà: grazie alle cosiddette reti sociali come Facebook, Twitter, e WhatsApp la loro vita di rapporti umani è stata risucchiata dalla macchina. Ci si incontra nella macchina. L’ambito più sacro dell’uomo: l’elemento sociale, viene affidato alla macchina. Facebook calcola per me quali notizie degli amici sono più importanti rispetto ad altre. La macchina interferisce nel mio comportamento sociale. Vanno persi il rispetto e la partecipazione.
Gli uomini sembrano sempre più colmi di grigia indifferenza nello spazio del cuore. Il grigio del rettangolo mi ricorda anche gli Uomini grigi del romanzo Momo di Michael Ende. Sono gli spiriti arimanici che convincono gli uomini a risparmiare tempo. In questo modo rubano loro il tempo. Chi ne cade vittima trascura le vicende del proprio cuore e diventa sempre più freddo nei confronti dell’elemento realmente umano.
Tanto più dominato dall’istintualità appare il resto dell’uomo. L’utilizzatore del computer riluce di un fiammeggiante rosso, arancio e giallo. Gli occhi spalancati sono affascinati. Fissa ipnotizzato lo schermo. L’uomo incontra con bollenti brame e desideri la fredda scatola meccanica. Dopo la scoperta dell’America molti europei furono pieni di brame per l’oro del nuovo continente. Si accesero passioni incredibili verso quel paese dalle possibilità illimitate.
Oggi il paese delle possibilità illimitate non si trova più in America. È in Internet. Molte cose sono gratuite, molte sollecitano la natura di desiderio e di brama dell’uomo. E come nel buon vecchio, selvaggio West, si può spadroneggiare, mantenendo una certa anonimità, senza responsabilità e senza coscienza morale. (Quest’illusione durò almeno fino alle rivelazioni di Edward Snowden.)
Vi si può vedere il principio della batteria: da un lato la freddezza e la perfezione di una tecnica sempre più veloce e miniaturizzata e dall’altro fiammeggia l’inesauribile vita di desideri e istinti dell’uomo emozionale. La macchina dà il meno, l’uomo il più. In mezzo nasce una vita simbiotica in cui si confondono realtà e illusione. Quanti sono gli uomini che pensano di avere in pugno la macchina, quando è invece la macchina che li tiene in pugno!
Chi pensa? È la batteria, la confluenza di tecnica e uomo che attira l’essere sinistro che si avvicina da dietro quale ispiratore e guida? Appare in una sfumatura grigio-blu. È il polo opposto dell’uomo affascinato dalla tecnica e carico di desideri. L’uomo è arancione giallo e caldo, questo essere è freddo e blu.
L’uomo con gli occhi spalancati mostra di essere dominato dallo schermo e di non vedere più con chiarezza. L’essere ha invece uno sguardo molto concentrato e mirato. Sa esattamente quello che vuole. Tiene saldamente la parte superiore del braccio dell’uomo e ne determina le operazioni con il “mouse” sul quale è appoggiata la sua mano destra.
Chi conosce le indicazioni date per l’euritmia riguardo alle rappresentazioni dei Drammi-mistero si accorge che questa mano che guida il “mouse” compie esattamente il gesto di Arimane. La mano deve adattarsi al mondo di Arimane, quando il computer ci invita a una compagnia simbiotica. L’altra mano dell’essere è sulla nuca, fra la testa e la spalla, si potrebbe anche dire: là dove pensare e sentire dovrebbero incontrarsi.
Questo freddo essere ispiratore sta dietro all’uomo davanti al computer come un potente Mefisto manipolatore. Quali pensieri vengono pensati in questo modo? Chi è che pensa? Un essere arimanico? Devo qui pensare alle descrizioni che fa Rudolf Steiner su Arimane quale scrittore.
Non è affatto facile comprendere che cosa avvenga in noi quando pensiamo davanti al computer. Infatti, è un’assoluta minoranza fra gli uomini quella che vuole osservare il proprio pensare. Si è abituati a usare il pensare sempre rivolto ad un certo contenuto. Così non si arriva mai a pensare il pensare come tale. È chiaro il “che cosa” del pensare: sono i concetti e i relativi collegamenti nel percorso dei nostri pensieri. Dormiamo invece rispetto al “come” del pensare.
Quali sono per esempio le qualità che vivono nel nostro movimento di pensiero quando cerchiamo di comprendere una frase filosofica, o quando ci lamentiamo dei nostri simili o quando compiliamo una dichiarazione dei redditi? Il nostro pensiero è freddo o caldo, rispettoso o brutale, profondo o approssimato, organico o meccanico, aperto o dogmatico, collegato o staccato dal cuore e dalla volontà?
Osservare il pensare è la chiave della Filosofia della libertà di Rudolf Steiner. Viene lì indicato come “condizione eccezionale”. Nonostante Rudolf Steiner abbia descritto questa autoconoscenza del pensare nella sua grande importanza, oggi è una eccezione che la si realizzi. Il libro pubblicato da John Brockman “Come ha modificato Internet il vostro pensare? Le teste che guidano oggi l’esistenza digitale” (tascabile Fischer 2011) è un triste esempio dell’incapacità per la maggioranza degli uomini di osservare il proprio pensare. Artisti, professori, ricercatori e altre figure famose rispondono a questa domanda. Quale insegnante di lettere avrei scritto sotto quasi ogni saggio “fuori tema”. In quanto non rispondono affatto alla domanda. Scrivono invece qualcosa che conoscono o che cosa pensano del tema. Evidentemente sono pochissimi quelli che riescono ad osservare e descrivere il cambiamento del pensiero prodotto da Internet.
Una piacevole eccezione è quella di Nicholas Carr che nel suo libro, che caldamente consiglio, “Chi sono quando sono on line … e che cosa fa il mio cervello nel frattempo? Come Internet modifica il nostro pensare”descrive la trasformazione del suo pensare davanti al computer:
Come ha constatato McLuhan, i media non sono solo canali di informazione. Passano la materia per nuovi pensieri, ma formano anche il processo del pensare. Un effetto di Internet sembra essere che mi diventa sempre più difficile concentrarmi ed elaborare intensamente col pensiero. Che io sia on line o no, il mio cervello attende che io lo nutra di informazioni come fa Internet: con un flusso rapido di particelle. Una volta ero un tuffatore nel mare della parola. Oggi scivolo via sulla superficie a folle velocità come uno sciatore supersonico.
Il quadro di Svi Szir mostra ciò che descrive Carr. I pensieri sono diventati superficiali e poco concentrati. Perché? Perché la volontà non è più collegata al resto dell’uomo. E perché il sentire viene gonfiato di fuoco, ma penetra in una area del cuore vuota, in quanto una macchina non può mai essere un alter ego degno dell’uomo. Il sentire vaga quindi a vuoto, carico di desideri e separato dal punto centrale del cuore. I pensieri non sono più collegati con cuore e volontà. Vengono sollecitati e sospinti, così come lo è l’uomo dalla fredda entità che, a differenza sua, sa esattamente che cosa vuole.
Chi è desto quando noi dormiamo davanti al computer? I pericoli essenziali del computer e della rete si chiariscono soltanto con un pensare che non veda l’uomo limitato al corpo fisico. Le azioni più incisive sono connesse agli arti costitutivi superiori dell’uomo.
Uno degli aspetti fondamentali dell’antroposofica di Rudolf Steiner è una visione dell’uomo che abbraccia diversi arti costitutivi del suo essere. A seconda delle prospettive e dell’ottica seguita si possono articolare in modi diversi. Nel presente contesto può essere utile seguire la quadripartizione: corpo fisico, corpo eterico, anima (corpo astrale) e spirito (io). (È del resto un’articolazione nota già agli antichi Egizi che distinguevano fra chat, ka, ba, e ach).
Il corpo fisico è l’arto costitutivo già abbastanza noto alla scienza più recente.
Più difficile da afferrare e descrivere è il corpo eterico. Gli dobbiamo soprattutto la crescita, la riproduzione, le trasformazioni, la capacità di pensare, di amare, di ricordare. In Asia la sua forza è chiamata “Ki” o “Chi”. L’anima ci è di nuovo più vicina. Vi sono attivi il nostro sentire, i nostri pensieri, i nostri impulsi di volontà.
Ciò che in noi pensa, sente e vuole è di natura spirituale. È il nostro io. Un io desto è una realtà specifica dell’uomo. L’anima l’abbiamo in comune con gli animali, il corpo eterico con gli animali e le piante, e il corpo fisico con tutto ciò che incontriamo sulla terra.
L’uomo attivo nella rete mostra la seguente collaborazione degli arti costitutivi: il corpo fisico è molto quieto, si muove solo la periferia (la punta delle dita).
La vita, il corpo eterico, si ritira e perde di forza. Ne è segno il diventar freddo degli arti e il senso di vuoto che si sperimenta. Il corpo eterico scompare sempre di più nel corpo fisico. L’uomo si avvicina all’elemento morto.
L’anima, portatrice emozionale dello spirito, vola attraverso il mondo di illusioni della rete, senza un legame con la realtà sensibile. Siamo in Australia, in America, nel tutto a seconda della pagina della rete che stiamo visitando. Ma siamo sempre in una illusione della lontananza, che non è reale lontananza. Gli arti costitutivi inferiori diventano sempre più fermi. L’anima e lo spirito vanno per vie autonome, separati da corpo fisico ed eterico, e questo a una velocità nervosa. Si ha così un’estraneazione fra gli arti costituivi inferiori e superiori.
Questa costellazione degli arti costitutivi è uguale a quella dello stato di sonno. Anche lì gli arti costitutivi inferiori arrivano a quiete e quelli superiori aleggiano in altri regni. Vi è dunque un piano sul quale il computer ci mette sonno! Ci porta in una condizione imparentata con il sonno.
Nel sonno vero è l’angelo che si occupa di noi. Riempie con coscienza di salute ciò che lasciamo libero nel sonno. Chi ci riempie quando davanti al computer ci addormentiamo parzialmente? Chi trova la propria gioia occupando il posto che si libera? A chi ci mettiamo a disposizione quando ci facciamo “tirar giù” dal computer? E’ l’essere freddo che sta come ispiratore dietro all’uomo pieno di passioni?
Se penso all’immagine dell’uomo parzialmente addormentato davanti al computer mi vengono un po’ i brividi … e tanti uomini si uniscono in un sonno collettivo davanti al computer. Che cosa viene fatto dell’umanità? Una comunità di uomini addormentati? Ma chi veglia al nostro posto?
Vi do un consiglio: quando la prossima volta siete davanti al computer, voltatevi una volta per vedere chi sta dietro di voi! Forse riuscirete allora a spegnere prima l’apparecchio …
Siamo malati e abbiamo bisogno di aiuto: non si tratta ovviamente di demonizzare il computer. Non è neppure la causa del male, sono i fenomeni che lo accompagnano. L’umanità è malata già da tempo. La catena degli arti costitutivi degli uomini già da tempo non è più inanellata in modo che l’io possa realmente agire attraverso l’anima e il corpo eterico fin nel corpo fisico. Il corpo eterico è così debole che viene messo in pericolo il collegamento con gli arti costitutivi superiori, corpo astrale ed io.
Già nel 1920 Rudolf Steiner diceva ai maestri della scuola Waldorf:
"L’umanità corre oggi il rischio (…) di perdere l’animico-spirituale. Infatti l’impronta fisico-corporea dell’animico-spirituale si trova oggi, in quanto molti uomini pensano in questo modo e in quanto l’animico-spirituale dorme, davanti al pericolo di passare nel mondo arimanico e che l’animico- spirituale si volatilizzi nell’universo. Viviamo in un tempo in cui gli uomini hanno davanti a sé il pericolo di perdere l’anima, per via dell’impulso materialistico. Si tratta di una cosa seria. L’abbiamo di fronte. Questo fatto deve oggi diventare il segreto che sempre di più ha da svelarsi per riuscire, conoscendolo, a operare in modo fruttuoso.”
Ai medici e ai sacerdoti della Comunità dei cristiani disse nel 1924:
Questo è qualcosa (…) che i medici e i sacerdoti attivi nell’umanità attuale dovrebbero comprendere per primi. Infatti si può proprio dire che oggi si possono osservare dappertutto due cose. L’io e il corpo astrale dell’uomo, nonostante lo stato di veglia, in fondo non trovano in modo corretto il corpo fisico e il corpo eterico.”
La crisi di questa connessione fra arti costitutivi è la chiave di molti fenomeni dell’attuale non cultura. Il computer rende visibile questa separazione fra arti costitutivi superiori e inferiori.
È la malattia nella connessione degli arti costitutivi diventata macchina. E’ il frutto del nostro sonno quale conseguenza della mancanza di legame dell’io col corpo. Naturalmente la macchina accentua il nostro indebolimento. Ci trascina sempre di più nel sonno, nella separazione fra arti costitutivi superiori e inferiori. Con questo non solo indebolisce la nostra volontà, ma anche il nostro io, che non riesce più a manifestarsi fin nella volontà guidata dal corpo.
L’apparente amico e aiuto si rivela come specchio della nostra malattia e come falso amico che ci indebolisce proprio là dove già siamo deboli.
Un bilanciamento al computer dovrebbe esprimersi così:
Desta la volontà capace di afferrare, armonizza il sentire, individualizza il vissuto del pensare. 
Quanto è stato riconosciuto e deciso dall’io deve riempire l’anima, muovere il corpo eterico e portare ad azioni terrene. 
Si può esercitare questo particolarmente bene con l’euritmia. Se l’essere desti significa la cooperazione di tutti gli arti costitutivi, non si può essere più desti di quanto non lo si sia quando si fa euritmia. Oggi è particolarmente importante la collaborazione fra anima (corpo astrale) e corpo eterico, perché è lì che si decide se siamo desti o addormentati, in quanto è lì che si interrompe la catena nel passaggio da veglia a sonno. Molto dipende dal corpo eterico, perché deve avere la capacità e la forza di portare come una coppa gli arti costitutivi superiori. Solo così la catena può mostrare un tessuto sano. Qui abbiamo bisogno del Cristo che oggi agisce soprattutto nel mondo eterico.
Alla fine la decimazione del corpo eterico dovuta al computer desterà sempre più nell’umanità la nostalgia di una guarigione nell’ambito eterico.
 Note:

1  - Andreas Laudert, Abschied von der  Gemeinde.  Von  der  anthroposophischen  Bewegung  in  uns,  Basel  2011 
1a – Ulrich Dziubany, Einer Mutter Zeit, Norderstedt 2011
2   - Rudolf Steiner, Considerazioni esoteriche su nessi karmici – vol. III, OO 237, 4.8.1924 e 8.8.1924
3   - Rudolf Steiner, La filosofia della libertà, OO 4, il capitolo „Il pensiero al servizio della comprensione del
mondo”
4  - Nicholas Carr, Wer bin ich … wenn ich on line bin …, Monaco 2010 
5 - Rudolf Steiner, Teosofia, OO 9, “L’essere dell’uomo
6 - Rudolf Steiner, Konferenzen mit den Lehrern der Freien Waldorfschule 1919 bis 1924, OO 300a 
7 - Rudolf Steiner, Corso di medicina pastorale, OO 318
8    - Sivan Karnieli/Johannes Greiner, Schau in dich, schau um dich – ein Buch zur Eurythmie, Steinbergkirche-Neukirchen 2016, capitolo “Die Krise des Ätherleibes und die Mission der Eurythmie“
9    - Sull’azione del Cristo nel mondo eterico Rudolf Steiner parla per esempio nei volumi: L’evento della comparsa del Cristo nel mondo eterico, OO 118 - L’impulso-Cristo e la coscienza dell’io, OO 116 Il cristianesimo esoterico e la guida spirituale dell’umanità, OO 130. Vedi anche Anton Kimpfler, Ankunft und Wiederkehr des Christus, Dornach 2001 e Die Zeit der Wiederkunft – Christus begegnen, Kiel 1988
Johannes Greiner, da In Ahrimans Welt, Edition Widar, 2018 
(Traduzione di Stefano Pederiva)




giovedì 21 maggio 2020

La peste nera del 429 ad Atene


Capolavoro nel capolavoro, Tucidide descrisse, nella Guerra del Peloponneso, l'epidemia di peste nera che colpì Atene nel 429 a.C. (Libro II, 47-54). Allora, in guerra da un anno con la Lega del Peloponneso guidata da Sparta, l'arroccata città marittima fu duramente colpita dall'epidemia.
Atene, cioè l'assemblea dei cittadini riuniti sulla Pnice, aveva adottato il piano del suo stratega Pericle. Padrona dei mari, non avrebbe combattuto contro la falange spartana - presumibilmente invincibile - ma sul mare. Bastava abbandonare le campagne circostanti alle incursioni nemiche. La popolazione rurale si rifugiava dietro le lunghissime mura che univano la città al porto del Pireo. Questa costruzione era stata peraltro percepita come aggressiva: Sparta vedeva una rottura degli accordi in queste fortificazioni così difficili da superare per la pesante fanteria degli opliti greci. Dal primo anno di una guerra che sarebbe durata ventisei anni, gli ateniesi abbandonarono l'Attica in preda alla devastazione del nemico. Trattandosi di una guerra stagionale, l'invasione si ripeteva. Invece di essere una semplice riedizione, la vicenda si rivelò negativa per Atene, la cui popolazione confinata tra le sue mura fu colpita dalla peste.
Nell'intraprendere la descrizione della peste, lo storico dichiara di voler essere utile in futuro di fronte a tale piaga.
L'episodio ebbe come testimone l'ateniese Tucidide, spesso considerato il primo storico. Questa reputazione è ben meritata, poiché il racconto della guerra del Peloponneso è il primo esempio di narrazione razionalista. A partire da questa prima spiegazione causale che chiama in causa l'imperialismo di Atene contro le città greche legate alla loro indipendenza. Uno schema che continuerà a fiorire negli studi strategici fino ai nostri giorni. Allo scoppio della guerra, non c'è posto per l'ira degli dei o la bellezza di una donna. Ma per le ambizioni degli uomini e delle città. Da questo punto di vista, la storia della peste è veramente sconvolgente, in quanto il suo autore è eccezionalmente lucido di fronte a eventi che facilmente generano superstizione e cecità. Nell'intraprendere la descrizione dell'epidemia, lo storico dichiara il suo desiderio di essere utile in futuro di fronte a tale piaga. Anche se la storia è ben nota, non è inutile analizzarla di nuovo se è vero che le condizioni di lettura possono influenzare la sua comprensione e quindi se l'attuale pandemia di Covid-19 dell'anno 2020 d.C. permette un nuovo approccio a un dramma vecchio più di due millenni.
Una storia clinica
Tucidide annuncia che si asterrà dal cercare le cause della peste, per mancanza di competenza, dice (una modestia eccezionale nel suo e in altri tempi), ma fornisce un resoconto del percorso della malattia dall'Etiopia, dall'Egitto e dal Levante. Il suo approccio è descrittivo e preciso; è anche volto ad aiutare gli uomini del futuro. È il primo resoconto realistico, storico e clinico di una grande epidemia, se si ammette che le rievocazioni della peste nell'Antico Testamento o nell'Iliade non rientrano in questa categoria. Dopo aver sottolineato l'impotenza di fronte al male, illustra i sintomi fisici della malattia tanto bene proprio per esserne stato contagiato ed essere sopravvissuto. Descrive quindi la sete che brucia dall'interno e spinge i malati a cercare l'acqua nei pozzi e nelle fontane.
Lo storico specifica il percorso della malattia dall'alto verso il basso del corpo e le fasi della morte. Cambia ben presto il taglio descrittivo, concentrandosi sugli effetti sociali della peste, sui rapporti tra gli abitanti, su quei rapporti sociali distrutti dal panico, gli abbandoni, la mancanza di pietà. Poi, in un quadro particolarmente originale, descrive gli effetti psicologici della malattia fino alla ricerca sfrenata del piacere di fronte all'imminente minaccia di morte. In questo periodo di pandemia, vale la pena leggere o rileggere la descrizione della peste nera.
Se non entra nell'eziologia della malattia, Tucidide non si cura neppure delle spiegazioni che, dice, sorgono inevitabilmente in queste situazioni. Quando evoca le antiche profezie, è per dimostrare che varrebbero in tutti i casi e che quindi in realtà non valgono nulla. Come quella che annuncia i disastri provocati dalla fame (limos) quando si tratta della peste (loimos). Se fosse accaduto il contrario, la medesima profezia sarebbe stata invocata con la stessa convinzione, assicura con inconfutabile buon senso. Quanto all'oracolo di Delfi, era risaputo che non era insensibile alla corruzione e all'influenza di Sparta.
Rifiutando l'approccio irrazionale, Tucidide individua le tracce della peste provenienti dall'Etiopia, dall'Egitto, dalla Persia e da alcune isole greche, suggerendo una progressione della malattia e quindi un percorso di contagio. Un tipo di spiegazione che si sarebbe affermato solo nel XVIII secolo, ma che, pur in assenza di una spiegazione razionale e soprattutto scientifica, portò le autorità a premunirsi contro il contagio molto prima che venisse scoperto. L'osservazione o l'intuizione precedettero il metodo sperimentale. Così, quando arrivò ad Atene, l'epidemia colpì per la prima volta il Pireo, un porto sovraffollato di marinai, mercanti, meteci e schiavi, prima di diffondersi nella città alta e nei suoi bellissimi quartieri.
Il teatro di questa diffusione della malattia fu la guerra...
Un'altra indicazione descrittiva che prelude a future spiegazioni è che l'epidemia si presenta come un evento legato alla guerra, come la storia ne ha conosciuti tanti: il confinamento (in tempi di assedio). L’ammassarsi all’interno delle mura cittadine di una popolazione accresciuta dalla massiccia affluenza dell’Attica rurale aumenta notevolmente la mortalità. Inoltre, quando Atene invia rinforzi a Potideo, i suoi soldati vengono decimati durante l'operazione e contagiano anche le truppe presenti. Il teatro, per così dire, di questa diffusione della malattia è la guerra. I nemici si evitano, si uccidono, ma non si infettano a vicenda. Tucidide fa notare che la peste risparmia il Peloponneso, cioè il territorio del nemico. Lo storico continua a raccogliere osservazioni che assumeranno una grande importanza nelle epidemie dei millenni a venire. Senza essere ben compreso e senza avere termini precisi per dirlo. Così egli nota la vulnerabilità degli operatori sanitari che registrano il più alto numero di morti o, al contrario, evoca l'immunità di gruppo: quei malati che sopravvivono alla malattia e sono quindi protetti da essa. Non senza sviluppare, per alcuni, un senso di invulnerabilità vicino allo squilibrio mentale.
Attribuzione di responsabilità
Abbagliati dalla descrizione della peste, i lettori della Guerra del Peloponneso prestano meno attenzione al resto della storia. Pericle viene semplicemente chiamato in causa nel dramma che scuote la città (II, 59-64). È nella natura dell'uomo, suggerisce Tucidide. Ma anche in quello di un regime democratico come quello di Atene. Tucidide non poteva prevedere i secoli che sarebbero seguiti, nei quali le popolazioni avrebbero attaccato meno i governanti e piuttosto le minoranze etniche o religiose, quando le epidemie avrebbero trovato uno sbocco nei massacri degli ebrei. Atene prefigurava la "razionalità democratica", così egli la descrisse.
In città, le conversazioni, le voci riguardavano i politici e prima di tutto colui che aveva dominato la vita politica per due decenni. In questo caso, Pericle, stratega della guerra del Peloponneso. Non ha schivato e ha persino preso l'iniziativa di convocare le demo sulla Pnice, come il suo ruolo di stratega gli consentiva di fare. Qui lo storico ricorre a un metodo narrativo classico trascrivendo il discorso dello stratega. Dice: "Quasi", per schiarirsi le idee, come non sempre fa. È vero che questo discorso è meno vivace di altri. Tuttavia, egli fornisce le grandi linee della difesa di Pericle come anticipo di altri appelli dei capi coinvolti, come è la regola nei grandi eventi.
Lungi dal chiedere scusa, sostiene innanzitutto che i cittadini perdono di vista il fatto che in queste circostanze l'interesse collettivo prevale sull' interesse individuale, perché se la città viene sconfitta, tutti saranno sconfitti. Non è più la solenne enfasi dell’orazione funebre per i morti del primo anno di guerra, un grandioso inno ad Atene e alla democrazia. Si tratta piuttosto di un discorso sulla forza della necessità. La guerra è qui, che ci piaccia o no. Nessuna scelta: vittoria o morte (o almeno servitù e umiliazione).
Il leader politico è stato attaccato in nome della sua responsabilità? Non cerca di sfuggire alle colpe, ma le associa alla responsabilità del popolo. Certo, lui stesso ha proposto questa strategia, ma l'assemblea dei cittadini l'ha adottata. Se mette in dubbio il piano, deve assumersene la colpa. Come ha potuto aggredire l'uomo integerrimo che la guida e che non le ha nascosto nulla? Pericle rovescia la medaglia. Chi poteva prevedere la peste? A differenza dello storico, egli evoca gli dei, ma quasi come una convenzione stilistica. Non c'è nulla che suggerisca che egli abbia creduto per un momento in un messaggio divino, o in una punizione. Astuto, si potrebbe pensare. In ogni caso, l'Ecclesia ha fiducia in lui.
Tucidide non fa mistero della sua ammirazione per Pericle, di cui descrive l'eccezionale statura. Senza abbandonare la guida della città, Pericle morì due anni e mezzo dopo. Di peste o delle sue conseguenze. Tucidide conclude il suo racconto con un elogio funebre. Questa simpatia spiega come mai Tucidide abbia dimenticato un punto debole nella difesa di Pericle? Egli invoca una responsabilità condivisa con il popolo, come pochi leader oggi oserebbero (potrebbero?), ma anche l'irresponsabilità di fronte al destino. La sua strategia, sostiene, è stata buona; propone di continuare. Non aveva contribuito all'esplosione dell'epidemia tra le mura della città assediata, mentre i territori degli assedianti venivano risparmiati? Era ovvio, a maggior ragione per uno spirito come quello di Tucidide, che lo aveva più volte suggerito, che l'eccezionale affollamento nella città assediata aveva favorito il diffondersi della peste. Tutta la sua descrizione lo attesta. Ma la strategia catastrofica di Pericle non viene mai messa in discussione. È che Pericle ha proposto una politica all'Assemblea Sovrana, che l'ha adottata: in ultima analisi è quindi una sua "responsabilità politica". Pericle fa bene a restituirgliela.
Considerando il nostro modello di democrazia rappresentativa e la nostra conoscenza dei meccanismi epidemici, non comprendiamo immediatamente la soluzione politica della crisi ateniese. Soprattutto, misuriamo la differenza con il nostro prossimo futuro, quando la pandemia di Covid-19 metterà a confronto i governanti attuali e gli antichi con le loro responsabilità. Quale responsabilità? Criminale o politica? È un destino crudele che concede responsabilità tanto immense a governanti convinti di fare solo scelte politiche ordinarie.
Alain Garrigou

Le Monde diplomatique, 6 mai 2020

domenica 10 maggio 2020

La benedizione di Rembrandt

Rembrandt “Giacobbe benedice i figli di Giuseppe, 1656 Pinacoteca di Kassel 



Secondo Rudolf Steiner, quanto si esprime nelle immagini di Apollo o di Michele in lotta con il drago o in motivi analoghi è la sorgente originaria da cui nasce tutta l’arte del chiaro-scuro. Quando si parla di chiaro-scuro si pensa immediatamente a Rembrandt, commemorato in tutto il mondo nel 1969 in occasione del trecentesimo anniversario della sua morte. L’opera di Rembrandt ha avuto una grande influenza in questi trecento anni, influenza la cui peculiarità corrisponde al carattere unico della sua opera.
Per esempio, lo storico dell’arte Carl Neumann1 descrive il giorno in cui vide per la prima volta a Kassel il quadro La benedizione di Giacobbe come il giorno in cui visse l’esperienza di Damasco, definendo “tempo dell’ignoranza” il periodo precedente a questa esperienza di illuminazione.
Quel giorno la sua vita si sarebbe divisa in due metà del tutto diverse. “E così quel quadro mi colpì al cuore dando un nuovo corso a tutta la mia vita successiva… ebbe fine quello stato di normalità in cui si trova un docente di storia dell’arte che fra le altre cose si occupa anche di Rembrandt… Rembrandt a Kassel mi strappò via con braccia gigantesche da tutta la terminologia consueta. Il suo patriarca morente e cieco scosse la mia povera anima, già in parte sveglia grazie ad esperienze di dolore, e le fece intuire come in un lampo che l’arte non è un imbellettamento della verità o un grazioso sogno gratificante… potei sentire fin nel midollo che le esperienze artistiche non sono limitate agli organi di senso, cioè a organi parziali dell’entità umana, ma che penetrano nell’insieme della profondità dell’anima... gli involucri del mio cuore si dissolsero.”
Rembrandt non soltanto scuote le anime, ma non lascia solo chi è stato scosso! In questo va di gran lunga oltre l’azione di coloro, ad esempio in campo letterario Strindberg, che riescono sì a muovere potentemente le anime e a sciogliere i lacci che le stringono, ma non irraggiano la forza iniziatica che fa del caos la porta di un ordine superiore. Questa incapacità è tipica di Strindberg e come mai, nella sua incarnazione come Strindberg il poeta, gli è stato preclusa questa benedizione, questo ruolo di alto sacerdote, lo si può comprendere alla luce delle considerazioni karmiche di Rudolf Steiner.
Da Rembrandt irraggia il pieno potere dell’alto sacerdote. Se si considera la vita dell’artista la si trova intrisa, si può proprio dire “spiritualizzata intrinsecamente”, da esperienze di morte. Vide morire tre figli ancora piccoli, la madre che dipinse così spesso e in modo così meraviglioso, la sposa Saskia, e tutto in un breve volgere di tempo. Durante la convivenza con Hendrikje morì il loro primo figlio, alcuni anni dopo la stessa Hendrikje e infine anche l’unico figlio molto amato, il ventottenne Tito. Dovette sopportare queste numerose perdite nei sessantatré anni della sua vita. Questa sequenza di eventi ebbe inizio nel 1636, cioè intorno al suo trentesimo anno di età; quel periodo così denso di dolorosi addii abbracciò un arco di tempo di trentatré anni. Quante settimane, mesi, anni di angosce per le amate vite che se ne andavano, quale lotta animica con le sfide dell’angelo della morte riempirono questa seconda metà della sua vita.
Il tema della lotta con l’angelo è il tema di Giacobbe. Rembrandt gli ha dato forma. Con la paura della morte propria e dei suoi, Giacobbe si sprofonda nella preghiera e affronta la lotta con l’angelo che dura tutta una notte. Era la “veglia notturna” in cui si mostrò che Giacobbe non riuscì a vincere l’angelo, però non fu sconfitto. Si potrebbe dire la stessa cosa per la vita di Rembrandt, la cui arte si manifestò sempre più grandiosa, quanto più intensa divenne la lotta. Neppure lui riuscì a vincere l’angelo; ma tutto ciò che il mondo ammira e sperimenta nella sua opera ci dice che neppure lui fu sconfitto. Più tardi Rembrandt dipinse il Giacobbe, che un tempo aveva lottato con l’angelo, come un vecchio che sul letto di morte dà la benedizione ai suoi nipoti. Non è l’usuale benedizione con un significato genealogico; questo gesto benedicente racchiude l’esperienza di colui che nella lotta con l’angelo gli disse: “Non ti lascerò andare prima che tu m’abbia benedetto!” Giacobbe è in grado di trasmettere direttamente la benedizione dell’angelo che si era conquistata.
Il quadro di Rembrandt è carico di questa corrente di benedizione. Il pittore stesso ha conquistato la forza di benedire, la troviamo in tutti i quadri dell’ultimo periodo. Questi quadri sono come patriarchi che accolgono col perdono i figli pentiti e che irraggiano calore dalla forza spirituale della vecchiaia. Ma la benevolenza carica di perdono così ampia ed estesa è al tempo stesso legata a un’impronta del tutto individuale. È sempre un singolo che diventa partecipe di questa forza benedicente. Nel caso di Giacobbe la cosa è molto chiara: non benedice secondo la legge che gli imporrebbe di farlo nella successione genealogica; non pone la mano destra sul primogenito, Manasse, ma sul fratello minore, Ephraim. La rottura con le leggi della genealogia in questo quadro è diventata spiritualmente ovvia. Nei genitori dei bambini non vi è meraviglia o dissenso, e la mano di Giuseppe sembra piuttosto sostenere la debole mano del padre.
Anche Il figliol prodigo che viene di nuovo accolto dal vecchio padre con una corrente di bontà carica di perdono è un singolo individuo, ma tutta l’opera esprime al contempo il messaggio: ognuno può diventare un individuo del genere! Una corrente di benedizione attraversa il mondo, può rendere luminose le cose e gli uomini più modesti, può rendere belle le cose brutte, dipende da noi se restiamo fermi nelle pieghe dell’oscurità.
Abbiamo sentito nella descrizione di Carl Neumann quale azione può provenire dai quadri di Rembrandt, per lui La benedizione di Giacobbe significò una cesura spirituale nel suo destino.
Un’ulteriore testimonianza ci conferma questo effetto in una modalità più “libera dal corpo” molto dopo la sua morte, come segno del suo ruolo di alto sacerdote che alla bontà deve unire anche la severità e l’ira.
Centotrent’anni dopo la morte di Rembrandt, nella notte fra il 15 e il 16 febbraio 1799, il giovane studente d’arte Philipp Otto Runge ebbe un sogno. In accademia incontra un vecchio compagno di classe e lo vede dipingere un quadro ad olio, sul quale stende “una spaventosa quantità di colore bianco”. Non ha il coraggio di dire al vecchio amico che la cosa è molto sciocca. Allora interviene Rembrandt quale professore, vestito come i nobili sacerdoti dei suoi quadri, tutto avvolto nella sua sacra oscurità. “Il cuore inizia a battermi forte quando lo vedo. Guarda quel che il mio amico aveva dipinto ed entra in grande agitazione. Tiene un discorso piuttosto lungo che si conclude più o meno con le parole: ‘Voi ragazzi usate in modo orrendamente gelido lo strumento che la musa vi offre, poi, freddi come il vostro cuore, stendete il vostro calcare e volete scoprire col vostro povero raziocinio ciò che il sentire di tutto il mondo non ha ancora finito di creare.’ Non so che cos’altro abbia detto, ma lo sento profondamente nella mia anima. Ha detto queste cose al mio amico il quale per la rabbia che il suo lavoro non venga lodato, strappa tutto. Rembrandt prosegue dicendo che tutta questa genia non merita di avere ancora i vecchi quadri e se ne torna indietro in cielo. Non potevo trattenermi. Anche a me era stata indirizzata una maledizione. Ho il presentimento che vi sia in gioco la mia beatitudine. Mi accascio, e il sogno termina. Improvvisamente mi sembra di svegliarmi e vedo Rembrandt che se ne va da una porta. E penso: devo andare da lui e affidarmi del tutto a lui, così come sono. Lo raggiungo nella stanza dove lo trovo seduto davanti a un suo quadro e piange. Sto per perdere i sensi vedendolo piangere. Cado ai suoi piedi, mi guarda e non ci diciamo nulla, ma non so più come sia stato il suo volto e come sia giunto sul suo collo. Mentre piango a dirotto, mi chiama il suo caro Otto. Non riesco a concepire un sentimento di maggior beatitudine che mi riempie. Sento che mi risveglio e ancora che ho pianto molto. Non mi è mai più avvenuto di avere un sogno in un tale scenario, con tale chiarezza.” (lettera a Friedrich Perthes, 16 dicembre 1799).
Runge, un vero ricercatore sulla via dell’arte, ha questo incontro notturno con Rembrandt in un sogno che si differenzia da tutti gli altri sogni per chiarezza e per la profondità del suo effetto. Si desta una seconda volta e sperimenta poi un contatto personale con Rembrandt nella nobile veste di sacerdote che compare quale maestro in una accademia d’arte, in un certo senso una accademia spirituale, dove i ricercatori sul cammino dell’arte vengono giudicati con criteri diversi rispetto a quelli terreni, anche, come unico. La maledizione che aveva sentito nelle parole di Rembrandt come rivolta anche a lui, riesce a trasformarla in una benedizione, in quanto porta in sé coraggio e devozione dell’anima, affidandosi del tutto al maestro.
Certamente un sogno del genere non sarebbe apparso nella sua anima se prima non vi fosse stata l’azione dell’opera di Rembrandt; Runge, come più tardi Neumann, sperimentò che questa opera può portare in modo così diretto alla entità del maestro come nessun’altra opera artistica.
1- Carl Neumann, “Die Kunstwissenschaft der Gegenwart in Selbstdarstellungen“, Leipzig 1924
 
Hella Krause Zimmer, da “Imagination und Offenbarung“, Freies Geistesleben, 2004 
Traduzione di Stefano Pederiva











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