Per un solo fiore che insista sul muro d’un giardino, il freddo indugia sui monti, la bora s’attarda nelle grotte dell’Istria.
Troppe rose sparse qua e là sui vecchi muri di cinta, troppi gerani ancora sul Canal Grande. lungo la riviera, molti tavolinetti fuori dei caffè, tutti i Luna-Park in piedi fanno ancora sfoggio di luce, pochi colpi di tosse in chiesa alla Messa cantata. Roma ha tutti i suoi tramonti d’oro.
Chopin domina sempre dalle cinque alle sette di sera e dopo cena Puccini e Massenet.
L’arte è ancora quella di mezza stagione: elegante, un po’ leggera, ma non troppo. È presto ancora per il rovaio di Wagner e di Beethoven, per i temporalacci del Rigoletto o del Barbiere, per il vino brulé di Rabelais e d’Omero, per il fuoco di Dante. I geni richiedono la stagione rigida, un cielo più cupo, il foco di legna più grosso; come tutti quei problemi proposti dal freddo intenso, dalle notti tempestose, dalle piogge dirotte, come l’alchimia, le castagne arrosto, gli enigmi.
Vanno ascoltati, letti e meditati di sera, nelle lunghe veglie grige e pesanti, quando le città odorano di oceani sporchi di fango.
E le grandi epopee? Allorché il dottor Lönroth chiamò a sé i più vecchi contadini, quelli non ricordavano. Stavano lì a cavalcioni delle scranne e non riuscivano né a sovvenire né a mentovare.
Ma ecco che battendo i piedi dal freddo, presero a dondolar sugli zoccoli, e con la cadenza, col ritmo a una a una su per le membra fino al cuore e alla mente, il rimembrare, il ricordare e rammentare via via di tutte le lasse.
Così la saga, l’epopea dei Finni, il Kalevala venne rievocato e trascritto per il futuro.
Con le sue reminiscenze più o meno antiche ed eroiche, con l’ultime battute di caccia e le prime bufere, l’inverno ci vuol favolosi.
Il tartufaro che nelle prime ore del mattino s’inurba col sacco in spalla cantando sotto le finestre ancora chiuse la bianchezza della trifola, si vede seguire - potenza della bella voce - da una falange di cani randagi accorsi a lui da tutte le strade.
Tremanti pel gelo notturno, l’ascoltano estasiati col naso in aria.
Il tempo delle fiabe investe ogni cosa.
Le verze che in crocchio, brinate, indugiano ancora nell'orto coi cappucci e coi broccoli, aspirano a entrare in cucina a maritarsi coi selvatici.
Lepri, pivieri e cignali non attendon che loro. E starne e beccacce e pernici. Fagiani in addobbo d’aceto intercalati con qualche rombo e anguilla marinata; olive grosse di Ascoli, zuppe di polenta e di pesce: fegatelli di maiale glorificati col lauro. Tutte le morti più sapide e mature dell’autunno morente.
Il buon Sole d’un tempo, che non ha più forza di riscaldare i muri, né di segnalare le fatiche umane col sudore della fronte, dà ancora qualche effimero guizzo qua e là e sembra spegnersi inutile avanti il tramonto con qualche anticipo sul proprio destino, come un suicida.
Tutti i maiali vigliaccamente scannati, il pesce rapito forivia con le ovaie ancora gonfie, un po’ di neve, poca, come quel po’ di farina che Re Marco sparse fra il letto di Tristano e d’Isotta, per ottener la prova dell’adulterio, e su cui l’umanità lascia la stessa orma d’una selvaggina votata alla morte.
Di sera, sotto il Capricorno, è ancora il cacciatore che torna fra le nebbie come in un’acquaforte, curvo col peso delle piccole vittime.
Poi l’ultima rosa cadrà, e sarà l’inverno.
Intere foreste condannate al rogo piombano a terra sotto i colpi dell’ascia; interi popoli di castrori, d’ermellini, di volpi, di pinguini s’abbattono a dozzine sulle mostre lucenti delle pelliccerie di lusso.
Sono i giorni in cui le mamme preparano pei neonati quel doppio equipaggiamento che è di rigore per le spedizioni polari.
A Venezia finestre e porte sul Canal Grande sono sbarrate; a camminar in piazza San Marco sulle pietre bianche si scivola; a Budapest il Luna-Park rugginoso e spento sul Danubio sta come lo scheletro d’un mammuth gigante; a Parigi i cigni del Bois lasciano il lago grande per il piccolo, i bambini che vanno a scuola in via Auber attraversano a mezzo il Grand Hotel.
L’inverno che avanza è solito dare di sé notizie a sensazione: baleniere catturate dagl’icebergs, il porto d’Arcangelo bloccato dai ghiacci, interruzione del traffico a Londra, delirio alla Scala, naufragi sulla Bretagna, primati sulle Alpi. Rase al suolo le ultime foglie, uccise le rare mosche rimaste, mortifica le campagne, seppellisce la terra, gela il naso agli uscieri.
Gli uomini vanno senza più rumore e senz'ombra; in tutti è visibile quell’alito che Dio alitò al primo uomo, con in più gli oltraggi del tempo che Adamo non sofferse.
Il freddo li ha colpiti dal basso all'alto. Al contrario della menta che gela il capo e la faringe, dei funghi velenosi che agiscono sul fegato e sui gangli, e del serpente boa che stringe alla vita, il freddo come la cicuta e la morte dei giusti sale al capo dai piedi. Non più una risata argentina senza un piccolo colpo di tosse, non un’allegria di fanciulli che non venga turbata dai geloni, non un pianto o una predica in chiesa, senza il finale d’una soffiata di naso.
È quell'età in cui lo spazio agisce in funzione del tempo, in cui lo stesso curvarsi della Terra determina una più rapida vecchiaia negli esseri e nelle cose.
Fra pochi giorni la prima bufera chiuderà lo sbocco di Serra Sant'Abbondio all’Avellana, caccerà i lupi dalle forre del monte Nerone e del Catria giù per le falde fino a Piobbico, fino a Cantiano, affamati, ululando. Quante vigilie anche loro per quattr'ossi di pecora vecchia!
Non è ancora l’inverno, è il solstizio.
E il presepe? È giusto che per il Ceppo, oltre il panettone, la torta e i torroni, vi sia la neve sui monti alla maniera di Brueghel; se no come farebbero i bambini a distinguerlo dalla Pasqua?
Gli uomini il Natale lo sanno anche prima che arrivi: hanno i loro bravi lunari, i loro libri, i giornali. Dal modo come il gallo del campanile gira e si ferma, sanno il vento che tira, consultano il barometro e ti predicono il tempo che farà domani. Non indovinano, perché questo è il loro destino, di andare avanti alla cieca, ma i giorni e le solennità del mese, registrati in colonna coi santi e le scadenze, li prevedono; e prima che arrivi il 25 dicembre, via che scannano maiali, strangolano tacchini e capponi, per festeggiare il Gran Giorno.
Tutta la loro festa è lì, in un bagordo. Non per niente sulla sacca di Goro, vedi poi venir giù per le fiumane del Po i turaccioli di champagne a galla con le immondizie.
Ma i bambini no: han bisogno di credere, di aprirsi alla meraviglia: le faville del fuoco, i ricami del gelo, la barba bianca dei larici.
Ogni albero diviene natalizio. Scintillante di ghiacci e ghiaccioli e gemmato di brine, emerge dalle nebbie della galaverna, quasi da un sortilegio. E come d’estate fuori all'aperto, fra l’argentezza lunare diffuasa sui mari e l’oro degli astri, le nozze di un’alchimia celeste, così in fondo all'anima, nell’interiore, nell’intimo, dove spazio e tempo si incontrano, da quella grettezza, da quello squallore, cos'è che si intravede come un barlume?
Fra cristalli di gelo, come uno scritto criptografico, stretto, rattrappito, quanto più rigido è l’inverno, tanto più è segreto; e va decifrato.
Ai rigori del vento, nelle solitudini, nella miseria, non è forse adesso che l’Astro maggiore discende?
In una greppia da bestiame al buio, alla neve.
Natalis Solis invicti. E comincia l’estate.
È dall’oscuro, dal cupo che la luce imprende a salire e i giorni cominciano a crescere. Poco, ma ogni giorno di più. Alle innumeri divinità delle altezze, l’Unigenito della profondità.
E tutto è più vivo che mai. Anche i morti. La terra che marcisce nutre i semi dei nuovi germogli, come i ricordi cedono il posto ai propositi.
E i pronostici, e gli auguri? Che altro significano gli auguri se non quel Natale in ciascuno di noi?
Non soltanto un ricordo, ma un presagio. Ecco lo scopo d’oro, l’oroscopo.
Di sera, se goccia il rosmarino, dove più confuso è l’orizzonte e più deserta la spiaggia, pensoso sul destino di tutte le creature, Dio cammina lungo il mare. E chi è solo l’incontra.
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