domenica 11 settembre 2011

Settembre - di Fabio Tombari

I fiumi, la prima bora, le strade. Strade che costeggiano la marina e si smarriscono qua e là lungo i tigli e i tamerici umidi dei viali, sotto le prime ville chiuse e i giardini lambiti dalle onde; strade lunghe, deserte, sorvolate in alto da grandi uccelli di mare nel vento; strade caliginose battute dalla pioggia; quando le signorine di provincia escono coi gomitoli di lana e coi quaderni per recarsi da un’amica vicina a fare la maglia o a riprendere lezioni di piano; mentre nei sobborghi o lungo le spiagge, le passeggiate dei seminaristi somigliano ad accompagni funebri senza feretro.

È questo il mese in cui ogni distanza dà il senso della nostalgia, quando l’orizzonte si perde dentro chiusi orizzonti, e l’estate ritrova finalmente nella morte la propria nobiltà.

I fiumi traboccati via a fuga dalle doghe della montagna cominciano a invadere le arcate laterali dei ponti. Passano sulle acque sporche le spoglie d’una stagione compiuta, gli ultimi avanzi di un’età fradicia che la prima mareggiata rigetterà sulle coste insudiciando le spiagge.

Sono belle in settembre le grosse burrasche, gli scuri di riva visti dal largo, per i quali tutta la baia s’imbruna sotto la minaccia dell’uragano, mentre le ondate irrompono fin nei capanni, e i maschietti che han letto Salgari non vogliono più uscire.

È così bello col capanno che minaccia un naufragio in piena regola e le tavole che scricchiolano e la spuma che monta. Questa è la nave maledetta e loro i pirati della Malesia.

“Corpo di mille bombarde!” grida il più piccino, “Venderò cara la mia vecchia carcassa”.
Le bambine invece tornano alla spiaggia con le calze e le scarpette, e la bambola cui han messo la cuffia perché fa fresco. Vengono a salutare le amiche e gli amici che partono; qualcuna ha il cuoricino gonfio. Parte anche Giorgio proprietario del canotto di gomma. È mezz’ora che stanno lì a salutarlo, tutte intorno a lui; e mentre Giorgio se ne va felice, le bambine si metterebbero a piangere se non avessero ritegno una dell’altra.
Piove. Nessuna pioggia è più propizia di questa che cade sull’aratura, sui cavoli, sui finocchi, sui vivai di grisantemi. Ma al mare, pensano i bambini, a che serve la pioggia sul mare? Forse alle poverazze o alle vongole?

Oh, il primo acquazzone sulla fiera delle cipolle di S. Nicola e S. Gennaro, come fa galleggiare le scorze d’anguria e di melone, e come corre l’acqua a bollicine lungo i rigagnoli delle strade! Addio, estate! Addio, bagni! Addio, mare!!!

Eppure è bello il mare così plumbeo e senza più traccia d’umanità. Ampio e possente come la bella musica, gonfio di sollevamenti e di pianto, non è soltanto acqua e cloruro di sodio.

Magico come la Luna, ha a che vedere col giorno della sua creazione quanto con l’ultimo dell’Apocalisse. Non già interludio fra giuochi, ma intermezzo, ma ponte fra le due sponde più sacre dell’esistenza. Solo, perché abbandonato.

Già gli alberghi, le pensioni, chiusi a vetri, hanno ritirato i tavoli dalle rotonde, dai terrazzi. Si torna a ballare dentro, col solo piano, col giradischi. Sono le sere in cui i pochi villeggianti rimasti s’illudono di avere un mare tutto per loro e tornano dalle passeggiate, chiusi negli impermeabili, un po’ raffreddati; le sere di pioggia in cui il profumo delle dature non impedisce più di gustare il profumo dell’amica vicina; le notti di vento e di salsedine, quando il cancello stride sui cardini rugginosi e cadono lungo i viali le foglie di tiglio che la tramontana spazzerà del tutto. Poi una vela nera apparirà all’orizzonte: i chioggiotti che tornano dall’Egeo. Comincia la pesca delle sardelle, delle triglie, delle anguille; e riprendono a popolarsi le valli salmastre di Goro e di Comacchio.

È bello il mare di settembre, ma forse più bello ancora sui laghi o lungo i fiumi. Lo sapevano i Dogi, i nobili e i ricchi mercanti di Venezia, che si costruirono le loro ville in riva al Brenta, proprio per passarvi l’autunno.

Essi amavano il Settembre e forse più ancora l’amarono Tintoretto, Tiepolo, Paolo Veronese che affrescarono quelle ville coi colori, col fasto e la grazia propria di questo mese.

E anche ora è bello, mentre le tenute echeggiano dall’alba al tramonto di schioppettate, e ogni anfitrione si compiace del proprio girarrosto che nel volger dell’ore e del giorno non fa che rosolar selvaggina per l’appetito della grande casa. È allora che la pittura veneta acquista il suo maggior sapore.

Coi primi freddi ritorna l’amore della casa, dell’orto, della cantina, della musica da camera. Tornano i figli. Risalgono in auge Schubert, Chopin. I tramonti sono miti sì che quasi è possibile fissare con gli occhi l’ultimo Sole. L’aria dolce, serena, trattiene la luce come un vino. La pineta di Ravenna di sera, pel passo dei pivieri, odora d’arrosto e d’incenso come l’orto di una canonica. E Dante muore.

Mai morte alcuna arriva in così buon punto come quella che raggiunge i massimi fra gli uomini sul declinare della natura, mentre la verità come la buona vigna si denuda da sé tutta semplice a portata di sguardo.

A che sopravvivere poi che la vita è matura e l’opera del tutto compiuta?

Sono i giorni dell’esaltazione della Croce, delle stimmate di Francesco; e le noci son buone da mangiare col pane. Il mese segreto degli addii, allora che si ritorna in città, abbronzati e malinconici quasi convalescenti di un amore che tinge: sì che la nostalgia d’un mare lontano, come ai tempi romantici, la dolcezza di un bacio basta per più settimane.

Festa dei broli, della frutta. Quali festoni nelle lunette dei della Robbia, a grappoli l’uve, le mele, le pere, le cotogne, le giuggiole già velate di brina, e le cazzeruole, le nespole maturano in fretta ai primi temporali bislacchi avanti che venga la grandine; quando le sorbe, rubate agli uccelli di passo, con una guancia di fuoco e una verde, si colgono acerbe da maturare in solaio giorno per giorno.

La pernice rossa ai margini della selva, resta estatica a fissare il Sole che tramonta, e non capisce.

Ricorda col cuore, non con la mente. Come i cervi.

Le sere in cui il cacciatore ode per le solitudini mosse dal vento il vasto rumore d’una folla antica, d’un bosco sacro.

Anch’egli ricorda e non rammenta. La nebbia violacea che è fuori, è anche in lui.

In alto, ammantato d’oro e di ferro, con la bilancia e la spada, San Michele frena il drago dalle molte teste e conguaglia la luce e le tenebre.

1 commento:

Nidia ha detto...

Ma che belle sorprese si fanno vagando sul web! Grazie per questi passaggi che fanno bene al cuore e alla mente

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