Novembre, quando l’autunno funziona da inverno, e nelle sere di nebbia gli uomini sembrano fatti della materia dei sogni: tanto i vivi che i morti, i cosiddetti morti.
Gli antichi l’avevano dedicato a Diana, gli astrologhi alla Luna.
Trae il suo nome dal calendario di Romolo che lo faceva a contare da Marzo, il nono mese, e dai nove cieli da cui sembra piovuto, annegato, infradiciato. Cesare lo arricchì di un giorno che Augusto ritolse; Dante lo cita in Purgatorio.
Grandi uccelli di mare dormono alti col becco al vento, mentre Pomposa batte l’Ave; e i bambini che per la strada di Aquileia, lungo le valli tornano da scuola, tremano di paura, tanto hanno grandi gli occhi.
I fiumi gonfiano, e a stare alla tina sul Po c’è pericolo, se si disancora la botte, di finir per l’Amarissimo soli col cane.
Il colore più diffuso è il grigio, il segno è l’Arciere. – La statua di questo mese, dice il Tanara, sarà vestita di fronde secche coronata di rami: in una mano un canestro di rape e d’ogni radice commestibile, al piede il Sagittario sopra una testa di porco selvatico in malvagia e un’oca grassa con scorze di melangole fra fagiani e lucci carpionati.
In città, dove le luci si riflettono sull’asfalto e passano donne dentro gli orsi delle pellicce, predominano le tinte brune e malva, come tinte di gran moda. È il mese in cui si riattivano i salotti, le relazioni d’affari, la stagione lirica; in cui l’ammiratore della ballerina, che altra volta attendeva in anticamera con l’omaggio delle orchidee, è introdotto in sala da pranzo con un mazzo di starne e di funghi.
Ma il Novembre esige solitudine. Chi non può star solo si smarrisce. Occorre cercarsi, ritrovarsi in tutte le cose.
Conveniente calafatare la barca, ristoppare gli infissi, spaccar la legna, raccoglier ghiande, riadattare i cappotti, rincalzare i carciofi, mandare i porci per le vigne.
Mese fosco, abbondante di selvatici di vongole di colombacci di fumi d’arrosto, di fiere fisse e mobili; carico di verze di pere bergamotte, di mele appie e cotogne, grave di infreddagioni, è il tempo dei sogni: quando anche il mare, assopito dopo la bora, dorme e russa tranquillo, cullando i suoi mostri.
Tutto è nebbia all’intorno: il giorno che si fa strada a stento in un labirinto, intravede le nubi ammassarsi, né sai dove l’orizzonte finisca e il cielo cominci.
Che v’è di là, oltre il confuso dei sogni? Larve, illusioni, ombre vane. E poi?
Il mondo dei sogni è tale perché inconsistente o perché opaco? Cos’è che ci vela? L’Helgoland, la terra dei santi?
Ventoso, piovoso, stravolto da bore e tramontane, sorvolato da falchi e gabbiani, da corvi e da ombrelli; è il mese in cui si mette mano al vino nuovo, si riaccende il caminetto e tornano in uso il biliardo la pipa il tresette. E pei piccini il giuoco dell’oca.
Se hai un mare a portata di mano, tenderai dei gabbioni a rete lungo i banchi di sabbia, dove l’acqua è meno profonda. Li ritrarrai di sera carichi di anguille.
Uccidere le anguille, dicono i saggi, non è peccato, poiché è tale pesce questo che se non l’uccidi presto, muore di consunzione.
I buongustai ritengono il Novembre confacevole per le lepri in fricassea, per le anitre ripiene, per le starne lardate, per le anguille di Comacchio; i dotti lo reputano conveniente alle conversazioni elevate; i vagabondi alla pesca dei barbi e delle lasche, le donne alle letture romantiche.
E le olive? Chi pensa più alle olive? Dal Rubicone in giù ce n’è abbastanza da consacrare il mondo: chicco per chicco, goccia per goccia; pei condimenti semplici e salubri, per l’insalata della sera ancor fresca dell’orto. Ma se la civiltà è portata a procurare l’olio soltanto per le macchine, e a lasciar marcire le buone olive nel fango, meglio allora restare analfabeti!
Passano i voltapietre. Tornano dal nord, dopo aver voltato col becco tutte le pietre delle isole di Gotenlandia, del Norfolk.
Cercano forse le tre pietruzze dell’upupa, che poste sotto il capezzale di chi dorme gli rivelano i sogni?
Dolci e tristi i tramonti inducono la mente a pensieri lontani, alle rive di un mondo perduto.
Se piove, i pesci sono verdi, i mari sporchi di fango, i laghi hanno la pelle d’oca. È allora che sotto un paralume, al calduccio, si comprenderanno meglio Nievo, Chateaubriand, le poesie di De Musset e di Gozzano, specie se fuori piove forte.
Per radio è il mese in cui più piace ascoltare Schubert, Debussy, Sibelius. Il cimitero sulle dune, di Partenwalen.
Abitano fuori porta i morti, chiusi nelle loro ville solitarie, sotto alti cipressi. Ad andarli a trovare, è bene camminare in punta di piedi, pregare sottovoce, pianger dentro.
Per l’estatella di San Martino, a sera, nelle sere di bonaccia anche il mare piange. A stare in darsena o da prua su un barcone udrai qualcosa come la morte di Sigfrido di Wagner.
Tutto è deserto quel mare, e tutto chiuso all’orizzonte da nebbioni spioventi e da uragani insonni. Ogni tanto, dal profondo, un rumore sordo come di timpani, poi un silenzio.
Ed è come se al largo, oltre i sogni, oltre il sonno, trafitto e lacerato dal Sagittario il velo della coscienza, s’intravvedesse, oltre al proprio destino, il vero se stesso.
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