
Un girotondo di attrici - la cui bellezza veniva esaltata da una cinepresa che amava
riprendere i volti sempre più da vicino. Il carattere ombroso, l'esilio negli anni Settanta, dopo alcuni guai con il fisco, il ritiro da eremita su un'isola al largo della Svezia, Farö.
Tutto ciò Bergman stesso l'ha raccontato nella sua autobiografia - Laterna magica - e in tutta quella serie di esplorazioni intime che sono i suoi films.
Ma nessuna informazione biografica può preparare allo choc di un'opera magistrale, oppressa dal senso di colpa, dall'angoscia della morte, da uno "spavento cosmico". Un'opera carica di tutti i terrori dell'umanità e pur tuttavia ariosa, abitata dalla grazia e dal sublime.
Un'opera che inventa costantemente forme nuove, e rigenera quel rituale del teatro antico, quella miscela di rito religioso e di fascino morboso che Bergman descrive così:
"Nella Grecia antica il teatro era indissolubilmente legato ai riti religiosi. Gli spettatori si riunivano molto prima dell'alba. Al levarsi del sole, avanzavano i sacerdoti con il volto coperto da una maschera. Quando raggiungeva la cima dei monti, il sole illuminava il centro della scena dove era innalzato un altare. Il sangue delle vittime veniva raccolto in un grande piatto. Uno dei sacerdoti, che indossava la maschera d'oro di un dio, si nascondeva
dietro gli altri. Appena il sole era più alto, due officianti, cogliendo l'attimo più propizio, alzavano il piatto perché gli spettatori potessero vedere la maschera divina del sacerdote nascosto riflettersi nel sangue. L'officiante lasciava trascorrere qualche istante, poi abbassava il piatto e beveva il sangue."
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